Questo infinito riverbero in copia: ‘Nosferatu non esiste’ di Andrea Accardi

Il lettore che voglia entrare in Nosferatu non esiste di Andrea Accardi, appena pubblicato da Arcipelago Itaca, corre il serio rischio di rimanerne profondamente irretito. Si aggirerà per città capitali o di provincia sentendosi allo stesso tempo in grado di dominarle o di perdercisi. Desidererà da un lato scorgere e nominare ogni minimo dettaglio urbano in un delirio elencatorio, sentendosi dall’altro per sempre estraneo, respinto, sinistramente spiato, seguito lungo i reticoli delle strade. Sarà – l’ipotetico lettore – il ragno che tesse la sua tela e la tela stessa, la città e la sua mappa, l’osservatore e l’osservato, in un continuo straniamento e rovesciamento di prospettiva.  

Con una doppia negazione si presenta appunto il titolo di questo nuovo libro del poeta palermitano, che fa seguito solo in apparente rapida successione alla dittologia Frattura composta di un luogo (Ladolfi, 2019) e Frattura composta di un nome (Ladolfi, 2020), in quanto è stato in realtà pensato, scritto ed elaborato in anni precedenti, contenendo infatti – come ci informa la nota al testo – poesie composte dal 2011 al 2019. Nosferatu (cioè “il non morto”) non esiste. È chiaro infatti che ciò che non muore non può esistere, inchiodato com’è alla finitezza tutto ciò che vive. Altrettanto scontata e fuorviante l’eventuale interpretazione letterale: Nosferatu non può che non esistere, essendo un personaggio che vive soltanto nei racconti popolari, nelle pagine dei romanzi o nelle pellicole dei registi. Per avvicinarci al probabile significato del titolo, dovremmo allora forse dirci cosa Nosferatu rappresenta, un personaggio “a metà”, umano e mostruoso, libero e irrisolto, bisognoso di partecipare del regno dei vivi eppure creatura notturna e solitaria, immortale e intrappolato in una eterna condizione infantile, confinato in un silenzioso castello e desideroso di vasti sconfinamenti (“Vorrei tanto passeggiare per le strade affollate della vostra bella Londra” dice il conte a Harker nel Dracula di Stoker), seduttore eppure incapace di provare amore (“Tu non hai mai amato! Tu non sei capace di amare!” viene accusato il conte, ancora nel libro di Stoker). Tutto questo, e tanto altro, è Nosferatu. E chi vive – metaforicamente, certo – incastrato in questa doppia condizione nutre il sospetto di non esistere in nessuna delle due: in questo senso, probabilmente, Nosferatu non esiste, o forse esiste, per paradosso, doppiamente ma non aderendo e non riconoscendosi fino in fondo in nessuna delle due polarità.

Come si vede, nel tentativo di definire Nosferatu continuiamo a procedere per progressive negazioni. Un po’ come accade al personaggio di Gabriele interpretato da Mastroianni in Una giornata particolare di Ettore Scola, che in una famosa scena fa dire al protagonista, un radiocronista colto e sensibile costretto a un imminente confino a causa della sua omosessualità, di non essere, al contrario di quanto da un uomo pretende la retorica fascista, “ soldato, marito, padre”. Non a caso, mi pare, Accardi riutilizza una battuta significativa del film (“E’ strano guardare sé stessi dal palazzo di fronte”) come esergo della prima sezione del libro, intitolata “L’impossibile di una casa”. Del capolavoro di Scola, il poeta risemantizza in chiave vampiresca il rovesciamento di prospettiva, la sensazione di estraneità e il disagio storico-esistenziale dei due protagonisti, recuperando la struttura fortemente dialogica, un serrato dialogo a due che è quasi assoluto in Una giornata particolare mentre diventa qui implicito e come a distanza.

I due testi di apertura, Topologia e Topologia 2, introducono quella che sarà una presenza costante nel libro, quella dei ragni, topos della letteratura horror, ma che qui non ha nulla del raccapricciante. Ragnatele dalle trame fittissime in comuni sale d’aspetto, ragni immobili che sembrano all’apparenza intrappolati nell’ordito della loro stessa creazione che non dominano fino in fondo e che non possono conoscere da tutte le prospettive sono utilizzati per dire dell’«infinito riverbero in copia» del mondo e dello spaesamento del soggetto. Oltretutto, in una dimensione più ampia, nel corso del libro i fili di ragno diventeranno reticoli stradali o linee della metro («Ma tu non avrai paura delle capitali / saprai tenere assieme i fili della metro», Le capitali, p. 62) e l’insetto non perfettamente padrone di sé e della tela che si è intessuto intorno sarà metafora di un io lirico che prova a guardarsi da fuori e si aggira in una rete di eventi, strade, ricordi, ossessioni verso i quali nutre l’aspirazione a rappresentarne il bandolo, ma dove finisce per occupare «soltanto e per sempre / il posto del ragno» (Topologia 3, p. 25).

Ma dicevamo del dialogo a due voci che struttura le tre sezioni principali. Che questo dialogo sia la colonna portante di Nosferatu non esiste è testimoniato non soltanto dai numerosi testi che lo inscenano, ma è sottolineato anche dall’esergo posto da Accardi all’inizio del libro, tratto dal Dracula di Stoker: «Non c’è che il conte con cui scambiar parola, proprio lui!».

Nella prima sezione del libro assistiamo così al progressivo avvicinamento di qualcuno verso un castello e l’attesa di qualcun altro che si aggira per le stanze di quel castello e aspetta l’arrivo dell’ospite. Sono testi contrassegnati da numeri romani, disposti a coppia, in carattere tondo il primo elemento, in corsivo il secondo. Si tratta di un dialogo, come detto, a distanza, psichico. I due personaggi (Jonathan Harker e il conte Dracula, che non vengono però mai nominati nei testi, sfumati in una giusta luce di ambiguità) cercano l’uno nell’altro un impossibile completamento, una salvezza, un rimedio  («Penso a te come a un rimedio / come a una via d’uscita», V, p. 21; «Vieni tu ad alzare la polvere / a fare rumore, ad aprirmi / tra urla e bisbigli / la porta», V, p. 22).

Harker probabilmente impersona una condizione adulta che, pur attraversata da accessi di nostalgia e da un senso angoscioso del continuo dissolversi delle cose, sa di non poter «tenere tutto insieme», che l’età matura è l’età delle scelte, che bisogna sempre «recidere / decidere», e tuttavia provando un’oscura attrazione verso una prospettiva infinita sul mondo – quella del Conte – che renderebbe possibile abbracciare ogni cosa («Sto arrivando. / Ecco il castello, il sortilegio. / La pietà del tuo contagio», VI, p. 23). Il Conte, per contro, è intrappolato in una condizione infantile. Aggrapparsi «a ogni cosa con i denti» (I, p. 14) richiama infatti a una regressione alla fase orale, ancora più evidente se si pensa ai «due fori ciechi» che lascia su ogni cosa. Prospettiva eterna sul mondo, passività e dipendenza. L’arrivo dell’ospite gli fa desiderare di uscire «da questo buio, giocare al gioco / del tempo, scegliere e rinunciare / come fai tu vivendo», ma le spropositate dimensioni del desiderio lo avvelenano, lo bloccano: «nulla gli sembra / abbastanza» (III, p. 18). Specularmente, mentre Harker vorrebbe la possibilità di chiudere «ogni tipo di porta» perché non si disperdano le cose destinate a finire, il Conte auspica invece l’imminente arrivo di qualcuno che lo liberi, che quelle porte venga a spalancarle, così da potere gettarsi finalmente nel tempo. È un incontro che nel libro di Accardi, a differenza che nel romanzo di Stoker, significativamente non avviene, e non può avvenire. L’uno si specchia nel vuoto dell’altro, non c’è né una soluzione né un mutamento di nessuno dei due, il dialogo non era altro che un monologo, le due voci inconciliabili rappresentavano soltanto due facce della stessa medaglia.

C’è molta acqua nella seconda sezione, “Simili ad alberi in marcia”: mari, fiumi, laghi, canali, acquedotti, pozzi, piscine; la geografia lirica è varia e mobile (Palermo e Mondello, Venezia e i paesi del Garda, Waterloo e Gibellina, Erice e Favignana) e la stagione dominante sembrerebbe essere l’estate, un’estate vissuta nei suoi ultimi bagliori, declinata tra spiagge ormai deserte e invase da ciarpame e scorie, panfili che rientrano nei porti, e una sensazione generale come di rovina e disfacimento. Ancora una volta però un esergo, stavolta pescato da un ricordo privato dell’autore, ribalta la prospettiva all’insegna del paradosso: «Se vai a mare non trovi l’acqua».

E all’insegna dell’assenza e del vuoto si apre “Simili ad alberi in marcia”. Mondello senza, con la congiunzione lasciata significativamente sospesa, descrive il periodo della fine della stagione balneare quando il sovraffollamento diventa all’improvviso «assenza / maltempo, vacanza»: qui ‘vacanza’, con un rovesciamento stavolta linguistico, è da intendere nel senso etimologico di ‘vuoto’, riferito certamente alla spiaggia ormai priva di strutture di accoglienza e di bagnanti, ma anche allo sguardo di chi osserva e sente in qualche modo dentro di sé quel vuoto. Una mancanza che è il risultato di un impossibile ritorno ai luoghi di elezione che sono stati troppo pieni e che adesso ci chiamano e ci derubano allo stesso tempo. Infatti, in Mondello senza 2, che chiude la sezione, pur non essendoci riferimenti espliciti alla fine dell’estate, Mondello è ancora una volta percepita come «vuota e incolmabile / un fossato di tempo, un bordo scivoloso» e ritroviamo una serie di sostantivi (lacuna, buchi, crateri, fossato) che afferiscono al campo semantico del ‘vuoto’ e che rappresentano degli straordinari correlativi oggettivi della perdita irrimediabile. Mondello diventa così il luogo simbolo delle scelte che ne escludono altre («Questo è il costo che paghiamo / per scegliere qualcosa e rinunciare / a tutto il resto, e Mondello lo insegna / come qualunque altro posto») e del ritorno impossibile («un ritorno / che invece confonde il rovescio / col dritto, il vampiro col giorno», p. 51).

Potrebbe stupire in un libro come Nosferatu non esiste, che intende ripercorrere le principali linee narrative del Dracula di Stoker, il fatto che la topografia letteraria di questa seconda sezione sia così palesemente estranea al capolavoro horror. Pur rimanendo nel solco a livello tematico, come vedremo, la libertà di variazione che l’autore si prende, soprattutto nelle poesie che non fanno parte dei testi contrassegnati dai numeri romani, è tra le cose più interessanti e lodevoli del libro. Così come Dracula abbandona la solitudine del castello e si mette in viaggio per mare desiderando conoscere «l’altro» in una metropoli fragorosa e moderna come Londra, allo stesso modo e con lo stesso spirito l’io lirico di questi testi esplora i luoghi costantemente frastornato dal proprio «temperamento malinconico» (Laguna, p. 36), sentendo i posti che attraversa sempre inconoscibili perché avvolti «in un segreto di cose sospese» (Vapori, p. 45), avvertendo nelle motivazioni stesse del viaggiare «tutto quello / che ci illude, ogni nostro travisare / e rincorrere fantasmi» (Gardaland, p. 40) e suggerendoci infine che «ogni città / è soltanto un castello più grande / di vetro che illude e poi sfianca» (IX, p. 46). Come Dracula a Londra, lontano dal castello, non può che essere solo e soltanto un vampiro, allo stesso modo il soggetto di questi testi scopre che il malessere lo seguirà dappertutto, che «non c’è niente di straordinario / se stai bene da una parte / starai bene ovunque. / Com’è vero anche il contrario» (Le capitali, p. 62).

Un continuo slittamento dal dato realistico e oggettivo a quello metaforico e visionario contribuisce a rendere ulteriormente unitari e compatti i testi, anche rispetto alla tematica vampiresca. Così, dal «mare di nebbia che sommerge / il castello e le case» di Erice potrebbe capitare di veder uscire «i vampiri dal buio delle tane» (Viale degli estinti, pp. 43-44). Dal castello in rovina di Favignana può spalancarsi la visione dell’«altro castello», quello di Dracula, con «il dorso dei cavalli sotto la luna / gli alberi neri, i denti dei lupi / per terra, la porta già aperta / nessuno in salone a servire la cena» (Vapori, p. 45). La descrizione di come si forma un temporale, contraddistinta dall’uso suggestivamente poetico di un preciso lessico della metereologia, apre nel distico finale a una visione inquietante, con chiare reminiscenze cinematografiche: in mezzo alla tempesta: «Nosferatu – lo vedi? – sta in piedi sul ponte / sta in piedi sul ponte della nave» (Meteo, p. 42).

Ancora a proposito delle variazioni sul tema del viaggio per mare di Nosferatu, registriamo qui la più rilevante: nella rilettura di Accardi, l’approdo del conte non è Londra, ma la spiaggia di Mondello: «sento il tonfo del cordame sull’acqua / le urla, il monte, l’alba che non mi avrà / questa luce che continuo a non capire» (Mondello senza 2, p. 51). Nosferatu, come sappiamo, diffonderà in città la peste. “Città o la fine dei topi” è il titolo della terza sezione. Il ricordo della peste del 1624-25 che sconvolse il capoluogo siciliano e che darà vita al culto di Santa Rosalia, la cui processione è anche una messa in scena di quegli eventi terribili, può aver fatto propendere l’autore per una scelta così originale. Nell’ultimo testo – una vorticosa prosa poetica –  la descrizione della processione della Santa si fa onirica e spaventosa («le cantilene accompagnano il carro, intonano il lutto dei morti viventi», e più avanti: «tante grida che diventano un lamento, soffre una città intera per la colpa di uno soltanto»), si carica di visionarietà al punto tale che la peste «sembra accadere di nuovo, Palermo, Costantinopoli o Milano», «la festa e la peste finalmente riunite» (XVIII, pp. 79-80).

La terza sezione, che presenta testi in versi e in prosa, si snoda come una grande riflessione sulle città, sfingi impenetrabili e respingenti, fragili e intercambiabili, nonostante l’amore con cui proviamo a scoprirle. Ma il desiderio nevrotico di conoscere, che è desiderio di annetterci tutto ciò che è altro da noi per disinnescarne la carica aggressiva o semplicemente altra, ingaggia una lotta ossessiva con l’impossibilità di riuscire, con il limite, infrangendosi contro le stesse parole che, tentando di addomesticare l’«infinito riverbero in copia» attraverso disordinati e impossibili elenchi, non fanno altro che frapporre ulteriore distanza tra sé e il mondo («Altro, altro. Lo senti questo suono, / senti la parolina che arriva e ci separa? , XIII, p. 63). Bisognerebbe allora imparare a rispettarli, i limiti («Non si può avere tutto / è il più importante, pare, / i bambini diventano adulti / appena capiscono questo», Limiti, p. 65), accettare gli eventi e le coincidenze senza che la volontà di controllarli ci spalanchi il presagio «di sventure vicine» o sottotrame diaboliche: «non possiamo sapere il messaggio che porta / il postino di Bosch» (XVII, p. 76).

Nonostante la lunga gestazione, Nosferatu non esiste di Andrea Accardi è un libro straordinariamente compatto, per stile, tono, immagini, per sapienza ritmica e prosodica. Opera vincitrice della sesta edizione del premio Arcipelago Itaca nella sezione “Non opera prima” per evidenti ragioni, questo libro di Accardi si configura in realtà come un vero e proprio esordio (e dei più riusciti e maturi degli ultimi anni) non solo perché, come si è detto, è stato scritto prima delle Fratture, ma soprattutto perché – come si accorgerà chi ha già letto i due volumetti pubblicati da Ladolfi – in Nosferatu non esiste Accardi si è pienamente rivelato riversandovi tutte le ossessioni e le possibilità della sua scrittura e della sua immaginazione. Frattura composta di un luogo e Frattura composta di un nome e probabilmente tutto quello che seguirà trova in questo libro la sua imprescindibile matrice.   

La presentazione a Palermo, presso “Prospero Enoteca letteraria”, sabato 26 giugno alle ore 18.30

 

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