Francesca Del Moro “Ex madre”. L’esattezza della poesia per “non soccombere al massimo grado del dolore”.

«Ho stretto l’urna contro il ventre,/ pesava pressappoco come allora./ Un figlio lo contieni sempre/ e ogni minuto io contengo,/ ogni minuto sento dentro/ mio figlio che muore,/ mio figlio che decide di morire.», versi ineludibili di Francesca Del Moro aprono “Ex madre”, edito da “Arcipelago itaca”, con i contributi critici di Rosaria Lo Russo e Luigi Carotenuto, e due opere di Loredana Catania. Questa poesia, compiuta e “terribile”, dettata con sillabica esattezza dal dolore, “scaturisce dall’abisso”. Non c’è distanza tra ciò che si vuole dire e ciò che viene detto, la parola è “piena”. Poesia e conscio, foggiano margini sempre più risolti e robusti, capaci di accogliere la portata debordante dell’orrore «privato». Leggendo discendiamo dentro l’osmosi tra “spiritualità” e poesia, “frammento pulsante di vita [e morte] interiore”, dentro l’esperienza radicale, contemplativa, dentro l’urgenza, «Sarò un tramonto/ quel giorno,/ un cammino lento,/ un largo di cielo negli occhi,/ il mare che mi respira».

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, sebbene “Tutte le parole/ che accalchiamo”?
La mia creatività si esprime al meglio nel silenzio, quando i pensieri sono liberi di vagare senza interferenze e a volte iniziano a formare parole che riconosco come potenziale germe di una poesia. Mi accade spesso mentre viaggio in treno o cammino nel consueto tragitto casa-lavoro oppure alle soglie della notte, complice il buio, prima di addormentarmi. In molti hanno colto gli aspetti visivi della mia scrittura e ciò probabilmente dipende dal fatto che il più delle volte nasce dall’atto di guardarmi intorno, osservando i dettagli, o anche da una rielaborazione mentale di scene viste in passato. Mi capita di scrivere osservando un paesaggio, un volto, il particolare atteggiamento di qualcuno, oppure un’opera d’arte. Anche la lettura mi suggerisce versi miei. In quest’ultimo caso non si può parlare propriamente di silenzio, ma si tratta di una fruizione lenta e approfondita della parola, che invita a farla propria, a lasciarla sbocciare dentro di sé. Il suicidio di mio figlio ha messo in moto parole frenetiche, domande cariche di dolore, di rabbia, di incredulità, destinate a non trovare risposta. Il silenzio ci faceva sprofondare nell’orrore e io e i miei cari parlavamo senza sosta per aggrapparci gli uni agli altri, in cerca di una direzione, di un senso in quello spaesamento. Continuavamo a raccontare l’accaduto per provare ad addomesticarlo. In quel periodo ero certa che non avrei mai più scritto nulla. Poi, quando il silenzio è diventato meno doloroso, raccogliermi in me stessa mi ha ispirato i versi di apertura del libro. Li ho scritti ripensando, dopo settimane, al momento in cui ho stretto l’urna contro il ventre il giorno della tumulazione. La seconda poesia, invece, fotografa l’ultimo tratto di strada che con i miei genitori ho percorso per arrivare a casa e apprendere la notizia, ferocemente illuminato dal sole di luglio.

Irrompe Pavese mentre cerco di formularti qualche domanda, diceva che scrivere è stato “una ferita sempre aperta”; ti chiedo: Cosa può la poesia? Può schiudere “la porta spessa quanto l’infinito”?
Per me scrivere è il sangue che sgorga dalla ferita e al tempo stesso ne è la cura. Scrivendo, si diventa altro da sé, ci si pone innanzi a ciò che siamo, e in questo modo è possibile osservarsi, e anche ricucire le proprie ferite. “Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono
dal cordoglio e dalle ceneri” scrive Cormac McCarthy nella Strada. “La porta spessa quanto l’infinito” è un verso che si riferisce alla porta della camera di mio figlio. Negli ultimi tempi, durante il lockdown, stava sempre chiuso nella sua stanza a studiare e io mi affacciavo solo per la gioia di vederlo, di sorridergli. Lui ricambiava il mio affetto, scherzavamo insieme ma, dopo aver chiuso la porta, coltivava pensieri di cui non avevo la minima idea. La poesia non può, almeno per me, superare barriere del genere. In questo libro, io spingo la voce oltre il confine che separa la vita e la morte, mi rivolgo a mio figlio come in passato indirizzavo i miei versi a persone irraggiungibili, vive o morte che fossero. Ma è una comunicazione a senso unico.

Dove sei stata condotta dalla poesia?
La poesia non mi ha condotta alla guarigione ma, insieme al tanto amore ricevuto dalla famiglia e dagli amici, tra cui molti poeti, mi ha dato la forza di sopportare il male; è come l’ingessatura di un’anima rotta, ma è un’ingessatura che tiene. “Tu sei una donna psichicamente ed emotivamente morta”: così mi ha definito la mia terapeuta a pochi mesi dalla perdita. In quel periodo ho conosciuto una persona che si è presa cura di me, in particolare leggendomi poesie ogni giorno. Nel libro lo chiamo “l’angelo” e mi ha curata a lungo in questo modo, spontaneamente e disinteressatamente, risvegliando in me la passione per la letteratura e per la vita. “Poesia come massimo grado della sconfitta. Poesia come massima distanza dalla resa” scrive Christian Tito. A questo mi ha condotto la poesia, a non arrendermi, a non soccombere al massimo grado del dolore.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Il concetto di “invalicabile” mi fa pensare naturalmente alla muraglia montaliana, sormontata da cocci aguzzi e ancor più al “muro della terra” di Caproni. “Non c’è il nulla” scrive Caproni “ma certamente c’è l’inconoscibile, c’è l’altra terra ignota, ci sono quei luoghi giurisdizionali dove alla nostra ragione non è lecito entrare e capire. Noi chiamiamo ‘nulla’ ciò che non possiamo conoscere”. Non credo che la poesia sia una sorta di sesto senso in grado di trascendere la dimensione fisica per accedere a quella sovrasensibile. O almeno non funziona così per me. Nondimeno, con riferimento al mio libro e al dolore che tratta sono state usate parole come “indicibile”, “incontenibile”, “inimmaginabile”, “inconcepibile”, “infinito”, “inaudito”, in qualche modo affini al concetto di “invalicabile”, quindi potrei dire che la scrittura mi ha aiutata a superare un muro interiore, non a trascendere ma a scendere a fondo dentro di me, abbattendo la difesa che si tende a erigere per non affrontare accadimenti come quello di cui parlo. Si chiam “rimozione”, in psicoanalisi. La poesia è uno strumento per superare questa barriera, per guardare in faccia la realtà, anche la più terribile.

La poesia è (te lo chiedo con il poeta cinese Lu Ji) la possibilità di riportare “parole vive/ …/ che balzano dal profondo”?

Grazie per avermi fatto conoscere questi versi, che si completano con l’immagine del pesce preso all’amo. Rispecchiano il fatto che la poesia può aiutare il lettore a cogliere il continuo divenire delle cose, a indagare le loro tensioni, le loro intime contraddizioni. Ogni parola in poesia è in movimento, ne contiene e suggerisce altre, non è statica ma “guizza” proprio come un pesce preso all’amo. Questa immagine mi porta a pensare al lavoro che si fa con i versi quando questi hanno “abboccato”, ovvero quando si coglie il germe di qualcosa che può diventare poesia. Non basta prenderla all’amo: si dibatterà vigorosamente e ci vorrà una lunga lotta per poterla tirar fuori dall’acqua. Il paragone con la pesca mi riporta anche all’attimo da cogliere: ho spesso pensato al mio lavoro con la scrittura come a quello di un fotografo di strada, che non prepara la scena ma è pronto a catturarla. Potrà certamente lavorare in post-produzione, ma la riuscita dello scatto dipende da quell’attimo e dalla prontezza e precisione con cui riesce a coglierlo.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola (poetica)?

Parlare di “verità” mi crea qualche problema e trovo ancora una volta aiuto in un distico di Christian Tito: “Non importa se voi non leggete le poesie / perché sarà la poesia a leggervi tutti”. Questo per me è ciò che maggiormente si avvicina al concetto di verità in poesia. Per arrivare a questa verità, la forma è tutto. Una delle frasi più famose riguardo all’architettura è “La forma segue la funzione”, coniata da Louis H. Sullivan con riferimento all’idea che il design esterno di un edificio debba riflettere le diverse funzioni interne. “Tutte le cose in natura hanno un aspetto”, scrive Sullivan, “cioè, una forma, una sembianza esterna, che ci spiega che cosa sono, che le distingue da noi stessi e dalle altre cose”. Queste forme esprimono “la vita interiore” delle cose, la loro “qualità originaria” e trovo che la stessa definizione possa applicarsi alla poesia. Chiudo con una frase di Enzo Campi, che cito sempre volentieri: “La poesia è forma. Il contenuto può essere qualsiasi cosa”.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non credo che la poesia si possa insegnare, che si presti a formulare “istruzioni”. Come ogni espressione artistica, occorre coltivarla e questo avviene soprattutto studiando le poetiche altrui. È un modo per trovare e affinare la propria voce. Potrei al massimo dare un paio di consigli. Il primo è quello di lavorare in sottrazione. Come scrive Sara Ventroni, citando Antoine de Saint-Exupéry, una poesia è finita quando “non c’è più niente da levare”. Sottraendo, si illumina e carica di senso ciò che resta. Se c’è qualcosa che avvertiamo come un di più, occorre toglierlo. Questo non significa scrivere necessariamente testi brevi: anche in un poema, in una composizione di ampio respiro fondata sulla ripetizione, sulla ridondanza, ogni parola è giustificata da particolari esigenze compositive e se la percepiamo come superflua è bene eliminarla. Il secondo consiglio è quello di avere la scrittura come unico obiettivo, senza preoccuparsi della ricezione o dei possibili riconoscimenti. Fare tesoro di critiche e consigli, ma portare avanti il proprio percorso.

Per concludere, ti invito a scegliere (riportandole) tre poesie dal tuo libro “Ex madre”.

In un libro così carico di dolore, scelgo tre poesie dedicate alla cura.

Un poeta mi legge ogni giorno
– per premura o per gioco –
versi di altri poeti, sono versi
d’amore. Io lo ascolto
alle soglie della notte,
quando batte più forte
la metà del cuore
che ho perduto, mi cullo
con la sua voce gentile
dall’accento del sud, immagino
posarsi sul mio corpo disteso
il suo sguardo azzurro.

*
Il sole che da luglio mi ferisce
torna buono in questo giardino.
Ecco le aiuole, le rose, il tavolino
tondo, le ombre del fogliame,
il sorriso di Adriana.
Nella stanza per me il letto fresco
mi ridona l’emozione del viaggio,
delle bozze sul comodino.
Piangere è dolce la sera tra la meliga
e l’orsa che seguiamo nel cielo
pulito, è un pianto condiviso.

*
Lo strappo al cuore
al passaggio ogni giorno,
servono otto gocce
ed è quasi indolore.

Lascio scorrere gli occhi
sulle statue che piangono
in ginocchio,
sul cancello chiuso.

Tra poco verserò
tutto questo
nel suo abbraccio
e lui lo saprà.

Perfino la luce
che si accende
dietro la sua porta
è come un miracolo.

(per Andrea)

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 17.04.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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