Renato Fiorito, “la poesia è come l’acqua, prende la forma dell’anima che la contiene”.

«Sul limitare del cielo,/ io, scintilla di un attimo,/ canto l’infinito./ Guardo l’eterno/ e prima di essere cenere/ misuro da questo/ la mia grandezza/ e la mia miseria./ Infinite galassie,/ origine e fine della creazione,/ dimorano nella mente./ Intuisco mondi paralleli/ di cui non so nulla./ Vedo la fatica dei padri,/ le lotte e le sconfitte,/ e so che tutto è avvenuto/ perché io esistessi./ Assumo come mio/ quello che altri hanno conquistato,/ le strade tracciate percorro/ per comprendere l’incomprensibile/ e so che nessun credo contraddice gli altri/ ma tutti procedono/ sull’irta strada della verità.». Versi di Renato Fiorito (nella ph di Eduardo Fiorito), schiudono “Andromeda”, poemetto cosmogonico che si volge con grazia all’interpretazione dell’origine dell’universo contemplando l’esistenza e ripercorrendone, dell’uomo, evoluzioni e involuzioni, «La saggezza sta nel percorrere/ la strada che riporta all’unità/ in cui ogni singolarità si dissolve/ senza averne paura». Il lettore, come scrive nell’introduzione l’editore Giuliano Ladolfi, «viene pervaso da un senso di stupore per un’impresa raramente tentata nella storia della poesia: ripercorrere il cammino della vita dal Big Bang a oggi. Si tratta di un’impresa non certo nuova, ma in ogni caso assai rara: Esiodo, Lucrezio, Dante in ottica particolare, cui si possono aggiungere i versi leopardiani del “Canto notturno del pastore errante dell’Asia” e della “Ginestra” per respiro cosmico, e, per arrivare più vicino a noi, la straordinaria poesia di Pier Luigi Bacchini». E leggendo, per la vita che «come rami di un albero/ in ogni direzione si espande», cogliamo un invito riconducibile alle parole di Dostoevskij, «ci vuole compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione». Pagine prospere, costellate da riflessioni e rimandi, «Non inganni la morte./ Appartiene anch’essa alla vita/ come vi appartiene la nascita e l’amore/ ed è dunque ugualmente sacra.», «Un granello di cenere non dice/ dello splendore che l’accese un giorno/ ma la sostanza di cui è fatto è luce/ come di un uomo lo è il suo pensiero.», «La speranza è il nostro vicino,/ l’inferno è disconoscere questa condivisione./ La sola colpa è uccidere.», «Il cielo non era più così lontano/ se ogni uomo poteva alzare lo sguardo/ e sognare allo stesso modo.», «Non ha vissuto solo chi non ha mai amato.».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Mi è capitato di leggere giorni fa “Stelle di marzo”, una poesia di Ingeborg Bachmann che inizia così: “Ancora la semina è lontana. Si vedono terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo.” e, a causa di quella stella riflessa nei terreni inzuppati di pioggia, mi è venuta in mente la mia prima poesia. Avevo, credo 8 anni e, a Napoli, al piano di sotto, abitava un poeta dialettale con la moglie, ex soubrette. Andavo a trovarli spesso perché loro amavano improvvisare spettacolini la sera per gli amici, e a me piacevano molto. Un giorno scrissi una poesiola, la prima della mia vita, e la mostrai al poeta con la speranza che l’avrebbe letta la sera durante la rappresentazione. Diceva: “E’ mattino molto presto,/ io cammino pel boschetto/ e qua e là tra l’erba verde/ vedo tante belle stelle./ Come spledon le stelline,/ esse sono assai carine,/ ma man man che il sole sale/ tutte quante esse scompaion./ Io vorrei prenderne una/ ma appena l’ho toccata/ la mia man riman bagnata/ da una goccia di rugiada.”. Il mio amico iniziò a leggerla ad alta voce, ma appena giunse al punto in cui dicevo di vedere tante stelle tra l’erba verde si interruppe e mi disse ridendo: “Ma le stelle stanno in cielo, mica in terra!”. E questa fu la mia prima, grande delusione di poeta.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Alle scuole superiori fui scelto per partecipare ad un premio interscolastico consistente nel redigere un tema sulla figura di Dante Alighieri. Poiché risultai tra i vincitori ricevetti in premio la somma, a quei tempi stratosferica, di 300 mila lire e un’edizione preziosa della Divina Commedia, illustrata da Gustavo Doré, che ancora gelosamente conservo. Così mi appassionai alla lettura di Dante, utilizzando la guida critica di Natalino Sapegno e, del tutto indegnamente, adottai il sommo poeta come mio primo maestro. Poi vennero Leopardi, a confortare i miei fallimenti amorosi, e Ungaretti, a rivelarmi una maniera diversa di scrivere, asciutta, aspra, suggestiva e intensa. Notando la mia passione per la poesia anche i miei familiari cominciarono a regalarmi libri di poesie e cosi scoprii Jacques Prévert, Pablo Neruda, Salvatore Quasimodo e i futuristi. Oggi ne amo molti, mi sovvengono in particolare Nazim Hickmet, Mark Strand, Charles Bukovsky e, tra gli italiani contemporanei: Dante Maffia, Bianca Maria Frabotta, Maria Grazia Calandrone, Mariangela Gualtieri, solo per dirne alcuni.

Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi non dovremmo mai dimenticare?
Ognuno conserva nella memoria le “sue” poesie, non perché siano le più belle in assoluto ma perché i loro versi sono intrecciati alla nostra vita e fanno ormai tutt’uno con ciò che siamo. Io, per esempio, non dimentico “Barbara”, la ragazza che Prévert descrive mentre sotto la pioggia a Brest corre verso il suo uomo e lo bacia felice, prima che la guerra distrugga la vita di tanti. Io quella figura di donna, grondante acqua e raggiante, in contrapposizione alla barbarie, la sento viva più di ogni immagine reale. “Che coglionata la guerra” scrive Prévert. Ecco: questo per me è un verso che non si dovrebbe dimenticare.
“Ricordati Barbara/ Pioveva senza sosta quel giorno su Brest/ E tu camminavi sorridente/ serena, rapita grondante/ sotto la pioggia/ Ricordati Barbara/ come pioveva su Brest/ E io ti ho incontrata a rue de Siam/ Tu sorridevi,/ ed anch’io sorridevo/ Ricordati Barbara/ Tu che io non conoscevo/ Tu che non mi conoscevi/ Ricordati,/ ricordati quel giorno ad ogni costo/ Non lo dimenticare/ Un uomo s’era rifugiato sotto un portico/ E ha gridato il tuo nome/ Barbara/ E sei corsa verso di lui sotto la pioggia/ Grondante rapita rasserenata/ E ti sei gettata tra le sue braccia/ Ricordati questo Barbara/ E non mi rimproverare di darti del tu/ Io dico tu a tutti quelli che amo/ Anche se una sola volta li ho veduti/ Io dico tu a tutti quelli che si amano/ Anche se non li conosco/ Ricordati Barbara/ non dimenticare/ Questa pioggia buona e felice/ Sul tuo viso felice/ Su questa città felice/ Questa pioggia sul mare/ sull’arsenale/ Sul battello d’ Ouessant/ Oh Barbara/ che coglionata la guerra/ Che ne è di te ora/ Sotto questa pioggia di ferro/ Di fuoco d’acciaio di sangue/ E l’uomo che ti stringeva fra le braccia/ Amorosamente/ È morto disperso o è ancora vivo/ Oh Barbara/ Piove senza sosta su Brest/ Come pioveva allora/ Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato/ È una pioggia di lutti terribili e desolata/ Non c’è nemmeno più la tempesta/ Di ferro d’acciaio e di sangue/ Soltanto di nuvole/ Che crepano come cani/ Come i cani che spariscono/ Sul filo dell’acqua a Brest/ E vanno ad imputridire lontano/ Lontano molto lontano da Brest/ Dove non vi è più nulla.”
(traduzione di Gian Domenico Giagni – Poesie di Jacques Prévert – Collana Fenice diretta da Giacinto Spagnoletti – Edizione Guanda del 1960)

Qual è – nell’arco della sua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia?
In verità io, se non c’è mia moglie a tirarmi via dalla scrivania, mi occupo disordinatamente di poesia tutto il giorno, ma non ho un tempo preordinato per comporre. L’ora migliore è quella dell’emozione, della nostalgia, della felicità, del verso improvviso che attraversa la mente, arriva improvviso e va via in fretta se ci coglie sprovvisti di carta e penna.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Un amico poeta si mise a raccogliere tutte le definizioni di poesia che trovava. Ne catalogò quasi mille, mi disse, ma nessuna lo convinse. Anche io non voglio definire la poesia, perché ogni definizione ha come corollario la necessità di accettare le poesie che rientrano nei canoni stabiliti e escludere le altre, mentre io credo che la poesia sia anche libertà espressiva e che i modi di fare poesia possano essere tanti e ognuno abbia diritto di cittadinanza. La poesia è come l’acqua, prende la forma dell’anima che la contiene. Perciò non mi piace imbrigliarla e dire: questa è poesia e questa no; né mi lamento, come fanno molti, dell’eccesso di pubblicazioni, anche se di insufficiente valore, poiché le percepisco comunque come un segno di interesse e di potenziale futura ricchezza. Penso in proposito che nessun tempo è stato più fortunato del nostro per il numero di persone che studiano e per gli strumenti di comunicazione di cui disponiamo, eppure si avverte come un’aridità dei sentimenti, una incapacità di entrare in empatia con il bello che ci circonda. Per questo andrebbero incoraggiati tutti i processi di sensibilizzazione all’arte poetica come a tutte le arti, ancorché imperfetti. In un tempo in cui la poesia è quasi completamente dimenticata dalla scuola, dalla televisione, dai giornali, e in cui nessuno può seriamente pensare di vivere scrivendo poesie, credo sia un vero miracolo che alcuni continuino a scrivere versi, si cerchino, si interroghino, non avendo altro obiettivo che la compiuta espressione della propria spiritualità. Ammiro questa generosità un poco folle di offrire molto senza chiedere nulla, perché grazie ad essa molti miglioreranno la qualità della loro vita, alcuni scriveranno buone poesie, i più dotati inizieranno un percorso di studio e conoscenza che li porterà a essere poeti a tutto tondo. Io trovo questo esaltante. Perciò dico: smettiamo di lamentarci. Chi è meno bravo non danneggia in alcun modo chi è più capace. Proviamo invece a farla vivere la poesia, senza costringerla in circoli ristretti, e proviamo a farlo con amore, volendo bene a quelli che cercano una loro espressività, aiutandoli a migliorarsi con la critica e l’incoraggiamento, senza steccati e senza supponenza.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Una poesia la considero terminata quando rende con assoluta precisione il sentimento che voglio esprimere, e lo fa in maniera armonica e suggestiva; ma soprattutto quando, rileggendola, mi accorgo di non potere più togliere o aggiungere nulla senza peggiorarla. Ecco: rileggere dopo qualche tempo è importante perché quando si è in fase creativa si cade in una specie di euforia compositiva che toglie lucidità e fa apparire perfetto ciò che perfetto ancora non è.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Il poeta, classicamente inteso, dovrebbe coltivare l’eleganza, l’essenzialità e la profondità del verso, facendolo diventare oasi, rifugio, conforto dal dolore, ansia di libertà. Tuttavia non credo che compito della poesia sia quello di preservare la purezza linguistica e imporre modelli espressivi da cui non derogare. A volte infatti è efficace proprio la contaminazione, il rubare dai dialetti o da lingue straniere espressioni che arricchiscono il lessico e lo rendono più vivo e vicino alla quotidianità, creando forza evocativa, sonorità e armonie nuove.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Come accennavo prima io non credo che alla poesia possano essere assegnate funzioni specifiche di carattere sociale o di qualsiasi altro tipo, tuttavia sarebbe auspicabile che, in questo contesto di cambiamenti epocali spesso tragici, la poesia riuscisse a tenere viva la forza della ragione e dei sentimenti, richiamando al senso di umanità e comprensione che tante volte sembra smarrito e che potrebbe evitare ulteriori tragedie. Questo ruolo non si decide a tavolino. Se nasce, quando nasce, viene fuori da solo, come reazione alla disperazione, all’inadeguatezza della politica, alla drammaticità dei conflitti. A tal fine sarebbe necessaria la scelta di un linguaggio intelligibile che, dopo anni di oscurantismo, di egotismo e di riflusso in modalità comunicative iniziatiche, recuperasse la funzione epifanica della poesia.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Mi viene in mente questa poesia di Hikmet che ben rispecchia il senso del viaggio che mi sembra di avere fatto in questi anni e della speranza di andare oltre che ancora morde il cuore:

“Non è un cuore perdio, è un sandalo di pelle di bufalo
che cammina, incessantemente, cammina
senza lacerarsi
va avanti
su sentieri pietrosi.
Una barca passa davanti a Varna
«Ohilà, figli d’argento del Mar nero!»
una barca scivola verso il Bosforo.
Nazim dolcemente carezza la barca
e si brucia le mani.”

 

Per concludere, ti invito a scegliere (riportandole) tre poesie dal tuo nuovo libro.
Il mio ultimo lavoro “Andromeda”, edito da Giuliano Ladolfi, è un poemetto cosmogonico che parla del mistero della creazione, della nascita della vita sulla terra e della storia dell’uomo, con le sue tragedie e le sue conquiste. Di esso mi fa molto piacere riportare qualche verso:

In principio
l’universo era energia
che si espanse improvvisa
nello scoppio grandioso.
Nubi di gas in ogni direzione sospinte
si coagularono immense
in nuclei brucianti.
Nessuno sa perché avvenne, nessuno,
né se vi fu prima altro di misurabile
ma in quel momento
accadde l’inspiegabile,
dall’oscurità senza tempo
si originò un fuoco di galassie.

L’amore di un giorno è per sempre.
Nessun abbraccio si può rinnegare
né si può rimediare al male fatto.
Di ogni cosa è intessuto l’universo.
Siamo luce di stelle, speranze fatue
coltivate come rose d’inverno.
Siamo la poesia dei nostri sogni.
Passeranno il mondo e le cose
ma non cesseranno i sogni
né periranno col corpo.
Mai saranno vecchi.
Le rughe solcheranno il viso
e sparirà la bellezza
ma i sogni resteranno lì a dirci
che nulla è mai finito davvero.

Portami per strade che non conosco, figlio mio,
oltre il mio tempo e la mia storia
oltre i miei soli e le mie speranze tu ci sarai.
Un giorno avrà il mio nome
un bambino che non conosco,
parlerà lingue che non ho imparato,
e porterà di me qualcosa
che ancora non so,
fosse solo il colore degli occhi
o il sorriso disarmato.
Perciò prendimi sulle spalle, figlio mio
e conducimi dove io non posso arrivare,
non ti sarò di peso, vedrai,
non hanno peso i ricordi.
Non sono stato perfetto, lo so,
ma dove non sono arrivato puoi arrivarci tu,
dove non ho saputo, provaci tu
dove io ho sbagliato, correggimi tu.

Andromeda, col suo corteo nuziale
cosparge di stelle l’universo.
Se non vedessimo il suo impasto di luce
diremmo che non esiste.
Invece è lì in fondo al cielo
a ricordarci da spazi siderali
la sua bellezza.
Tra miliardi di stelle, altri mondi
sono aggrappati alla volta,
quinte di teatro per la nostra commedia,
realtà irraggiungibili alle nostre domande
a cui manca sempre l’ultima risposta
che ci inchiodi alla terra
o ci renda immortali.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 10 giugno 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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