“Scrivere è un’arma e la dignità intellettuale deve essere l’esempio”

Grazia Verasani per l'Estroverso

l’Autore racconta

Ho cominciato a scrivere da bambina e non ho più smesso. Ho sempre letto di tutto, davvero, senza snobismi: ricordo che passavo da Tolstoj (chissà cosa ci capivo) alla Sagan, con una predilezione giovanile per la letteratura americana, e con un’attenzione particolare verso autrici da me molto amate, a cominciare da Jane Austen e le sorelle Brontë. Più tardi mi sono appassionata alla narrativa di genere, e in particolare di noir, e qui cito gli autori per me fondamentali: Raymond Chandler, Patricia Highsmith, Fabio Izzo. Negli ultimi anni ho tenuto alcune conferenze su Cèline, autore da me molto amato e studiato. L’elenco è lunghissimo, anche per quel che riguarda gli italiani e la narrativa contemporanea. Perché ho cominciato a scrivere? Perché divoro libri, ecco, e poi perché sono stata fortunata: il mio maestre delle elementari è stato Antonio Faeti ed è lui che mi aiutò a capire che essere una bambina “strana”, dalle troppe bugie fantasiose e con una propensione naturale per la non conformità, non era un handicap, tutt’altro. Non immaginatevi che fossi un piccolo genio o più avanti delle altre, ero semplicemente incontrollabile, un po’ ribelle, e amavo scrivere, disegnare e tutto ciò che per me era “insolito”, diverso. Ora, al guado dei cinquanta continuo a essere una donna che legge moltissimo e che ha trovato nei libri un modo di vivere più intenso della vita stessa. Non vivo bene il mio tempo, lo spregio per la cultura che vige nel nostro paese più che in altri, lo vivo con dolore. Perché l’anima di un paese muore, se non si leggono più libri, se non si va a un concerto, a una mostra, in un cinema, o a teatro. Ho vissuto e vivo di queste cose meravigliose. Mi hanno aiutato a vivere meglio, a pensare meglio, e a illuminare tutte le parti più oscure. E credo che l’unica rivoluzione possibile sia continuare a farlo, a dispetto di una politica indifferente, di un mercato uniformante, di un linguaggio sempre più superficiale e semplificato. Credo che ci siano delle responsabilità morali da parte della politica, credo che la cultura preceda la politica (come diceva Pavese) e che tutto dovrebbe ripartire dalla Scuola. Non ho figli, ma ho allievi scrittori promettenti e mi chiedo che futuro avranno, e se tutto si ridurrà a un reality che di reale non ha nulla. Insomma, anche nei miei romanzi, cerco di riflettere su queste cose, perché credo che scrivere sia un’arma e che la dignità intellettuale debba essere d’esempio, in un mondo dove a vincere è troppo spesso l’arrivismo, la furbizia subdola, e il culto del facile successo.

Oggi pubblicare un libro significa muoversi all’interno di un labirinto, i giovani sono sempre più penalizzati. Si comprano sempre meno libri, c’è confusione, disorientamento, e paradossalmente un libro scritto male vende più di un libro scritto bene. C’è, a cominciare dai giornali, un rispetto sempre meno forte nei confronti della lingua, una sciatteria dilagante, ed è come se la gente volesse solo distrarsi, sospendersi, mentre io invece credo che un libro debba far pensare, oltre che avvincere, emozionare, divertire.

Credo che un libro vada giudicato soprattutto per come è scritto, perché la forma e la cura sono spesso sinonimi di buone storie. E credo anche, a dispetto del mio pessimismo, che finché ci sarà voglia di storie, i libri resteranno. Per questo ho messo le tre protagoniste del mio ultimo romanzo “Mare d’inverno” davanti a un camino, come delle stagionate “Piccole donne”, a confidarsi, a discutere, a cercare di capire meglio se stesse e il mondo in cui si muovono. È il mio dodicesimo libro ed è vero, anche nei miei noir esistenziali con l’investigatrice Giorgia Cantini, le donne sono spesso al centro della mia narrativa. E soprattutto le donne irregolari, appassionate, inquiete, e forti perché ammettono le loro debolezze.

Agnese, Vera e Carmen sono tre donne di oggi, come ce ne sono tante, e la loro amicizia è vivace, litigiosa, profonda. Sì, è un romanzo sull’amicizia, pur rifiutando i ghetti di una narrativa femminile che confina spesso le autrici a un “rosa” che non le contraddistingue e spesso le riduce a delle macchiette. Ed è un romanzo che parla della solitudine come di un’opportunità di conoscenza, e non come di una sconfitta. Riaffiorano i ricordi di un passato in comune ma anche le rivelazioni del presente. E quel malinconico fuori stagione (il mare d’inverno, appunto) che fa da sfondo, è anche uno stato emotivo. Pur essendo nella cosiddetta età dei bilanci, riescono a sfrondare paure e amarezze con ironia. La sdrammatizzazione della giovinezza finita è vissuta quasi come in un film di Almodovar: battute caustiche, prese in giro, durezze che si sgretolano.

Il lato comico della vita diventa così una risorsa, oltre che una difesa contro gli anni che passano. Insomma, si può cambiare anche a cinquant’anni, e essere ancora capaci di stupirsi. È un romanzo di sentimenti, e i sentimenti esulano dall’identità di genere. Anche un uomo può ritrovarsi in queste pagine, o almeno lo spero. Io desideravo anche aiutare le donne che mi leggeranno a non vivere l’assenza di un uomo come un fallimento, a non sentirsi socialmente giudicate per questo, e a ridere di se stesse fuori dai luoghi comuni, dalle convenzioni e dai piagnistei. Grazie soprattutto alla forza della loro alleanza.  

 

 

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