“Tempo assediato” di Titos Patrikios (Fallone Editore). La curatrice e traduttrice Maria Caracausi: “La poesia ci trova dappertutto”.

«Se, come si dice, la nostra patria/ sono gli anni della nostra infanzia/ allora è una patria/ che continuamente si allontana/ che solo come ricordo/ resta per noi sempre più opaca./ Forse meglio cercare/ una patria più stabile.», versi di Titos Patrikios (Atene, 1928), ad oggi, uno dei poeti più significativi della Grecia, la cui opera si distingue per la “capacità di conciliare esperienza personale e coscienza collettiva; nei suoi testi la forza della memoria storica appare indissolubilmente legata alla consapevolezza del presente”, scelti da “Tempo assediato”, deliziosa plaquette, tradotta e curata da Maria Caracausi (che abbiamo intervistato), pubblicata da “Fallone Editore”, nella collana “Il leone alato”, diretta da Andrea Leone.

Con Tempo assediato di Titos Patrikios, inizio col chiedere: perché (oggi), dalla voce della curatrice, leggere questo libro? Cosa può la poesia “contro” la dilagante incapacità di ascolto e cognizione?

Questa duplice domanda richiede una doppia risposta: rispondere alla prima è semplice, alla seconda molto più difficile. Non so cosa possa la poesia contro il dilagare dell’omologazione, della mercificazione ed anche della volgarità che purtroppo caratterizza in larga misura il nostro tempo. Questo libro sarà letto indubbiamente da chi è già aduso a leggere poesia: per il lettore di questo tipo la raccolta fornisce un percorso artistico, ma anche esistenziale attraverso l’esperienza di Patrikios. Le 12 poesie della silloge coprono un intervallo molto lungo, dall’adolescenza alla maturità avanzata: nelle diverse tappe può ritrovare qualcosa di sé anche il lettore di oggi.

Quali parole la “trovano” se chiedo di tratteggiare Titos Patrikios? Ovvero in un lungo tempo di “ascolto” che cosa le hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare”?

Non è facile rispondere in breve a questa domanda. Sintetizzando al massimo, posso dire che senza dubbio è l’ανθρωπιά, l’elemento squisitamente umano, che si declina nei versi di Patrikios in diversi momenti e modalità (la Storia e il vissuto dei “senza-storia”, l’universale e il personale). Grazie all’espressione, che resta costantemente sobria pur nella tangibile empatia, il suo messaggio poetico risulta convincente e autentico per lettori di diverse culture e generazioni – ovviamente anche per me.

“Non mi curo più del perdono di nessuno.”: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

La poesia è in primis espressione, ma è anche comunicazione: ciò premesso, è chiaro che la scrittura raggiunge altri soggetti umani, con i quali si possono stabilire contatti concordi o anche discordi. La poesia cui appartiene il verso citato (“La metamorfosi”), comunque, si riferisce ad una precisa situazione politica vissuta dal poeta e segnatamente ai suoi rapporti con i compagni di percorso.

La poesia è realmente traducibile?

Questa è davvero una vexata quaestio, in cui abbondano i luoghi comuni! Che significa traducere? E poi… “traduttore traditore”… e poi “belle infedeli e brutte fedeli”… e via dicendo. Certamente una traduzione sarà sempre “altro”, rispetto all’originale, darà al lettore un’immagine di esso paragonabile alle visioni nella platonica caverna … ma che alternativa abbiamo? Meglio disporre di un’immagine pallida e sbiadita che non avere neppure quella, direi. (Quante lingue straniere può imparare una persona, del resto?).

E se lo è, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione (di riscrittura)?

Personalmente preferisco parlare di traduzione: il mio rispetto dell’originale è tale (quasi esagerato direi) che tento di scomparire… la traduzione (almeno la mia) vuole essere un’ancella del testo… Altri, certamente, riscrivono, reinventano, ricreano… Queste sono scelte individuali del traduttore.

E, ancora, la poesia è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisce, “semplicemente” da un verso?

La poesia certamente scaturisce dall’ispirazione… ma è a freddo che l’ispirazione decanta e si trasforma in parole e discorso. Altrimenti, probabilmente, ci si limiterebbe a mugolare, o a ripetere all’infinito parole senza tempo. Nel “Discorso di Stoccolma” (1963) Jorgos Seferis scrive significativamente: «La poesia affonda le sue radici nel respiro umano – e che sarebbe di noi se il nostro respiro venisse meno?». Lo stesso Seferis, però, confessava di aver bisogno di molto tempo (a volte financo di anni) per poter trovare la linea, la “curva” per completare una sua poesia. «La poesia ti trova», scrive Patrikios – ed effettivamente ci trova dappertutto, spesso nei momenti meno prevedibili. Quanto a me, sono parecchi i versi e le poesie che mi hanno dato e mi danno molto: ex abrupto potrei dire “Sopra un verso straniero” o anche “Il re di Asine” di Seferis, due poesie che mi hanno dato e mi danno tuttora molto (le anche tradotte, con molta gioia). Un singolo verso-motto per me, invece, è «Esclaves, ne maudissons pas la vie» (Arthur Rimbaud)

Sceglierebbe, per salutare i nostri lettori, una poesia di Titos Patrikios (dal libro che ha curato) che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il suo essere nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?  

Una poesia di Patrikios a me molto cara è “Don Chisciotte”, non tanto perché abbia cambiato il mio essere nel mondo, ma perché mi ritrovo in essa. Sono convinta del fatto che tutti noi che coltiviamo (ancora) poesia, musica, arte… le cosiddette humanities e non solo …Tutti noi, piuttosto, tuttora convinti che essere anthropos significhi credere in un rapporto di rispetto profondo per il nostro prossimo e per tutto l’universo (homo sum, humani nihil a me alienum puto), siamo dei Don Chisciotte e lottiamo contro la negatività pur essendo destinati alla sconfitta, come i “Troiani” di Kavafis. Una piccola nota curiosa: ho scelto questa poesia per la nostra antologia senza sapere che Patrikios l’aveva composta appena adolescente.

Don Chisciotte

Dagli squallidi banchi della nostra scuola
intrecciavamo sogni per la vita
e ancora fino a ieri, folli,
dicevamo che potessero realizzarsi.

Novelli Don Chisciotte del mondo
muovemmo alla sua dura conquista
ma la corazza aspettava intatta il quando
finché si stancò di attendere la nostra gloria.

Quando arrugginì abbandonata nel suo angolo
cosa significasse battaglia non sapeva ancora
tuttavia meglio uscirne sconfitta
piuttosto che imbelle, coperta di onta.

Ora che tutto si è ormai guastato
e si sono disfogliate le nostre esigue ali
in questo mondo che ci è stato dato
stringendo i denti per la prima volta
cercheremo tutti di trovare un posticino
forse anche da garzoni in qualche bettola
o a trasportare valige e bauli
anche se per anni siamo andati a scuola.

A poco a poco ciascuno di noi si acconcerà
e il tempo tranquillo e impercettibile
chiuderà ogni ferita
se presto non ci ingoierà la terra.


Maria Caracausi (Università di Palermo, Dipartimento “Culture e società”) insegna Lingua e Letteratura Neogreca e materie affini. Ha conseguito per prima in Italia il titolo di Dottore di Ricerca in Lingua e Letteratura Neogreca (1987), ma ha insegnato per parecchi anni Greco Antico e Latino al Liceo Classico. Ha al suo attivo più di cento pubblicazioni tra edizioni, studi e traduzioni. Ha ricevuto diversi premi, tra i quali il Premio Statale per la traduzione letteraria dal Ministero della Cultura della Repubblica Greca (2021). È presidente dell’Associazione Italiana Studi neogreci. Collabora con diverse Università greche ed europee, e fa parte del Consiglio Direttivo dell’Associazione Europea Studi Neogreci Dirige tre collane di letteratura neogreca in traduzione italiana che ha fondato: NIATA, NIATA MAIORA (entrambe per Unipapress), AGAPANTI (Torri del Vento).

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 06.10.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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