’U STRALLÀSCITU (Lo schiamazzo)

 

ph Edyta Ziolkowska

Paria chi stava ferma
’a ciamma.
                 S’ammicciavu
cchiù nchiccu m’addunavu
ammeci chi trimava.

                                Sti cusuzzi
chi ggìranu, ri notti,
attornu ô lumi e trùzzanu: cci nn’è
nna tàvula sminnati,
abbruciati pi ddintra
ô tubbu, ncapu ’u libbru
cci nn’è, nne fogghi, chi
sbarìanu.

Una stracquata ri
fora, ri l’addinaru,
junciu.
Vuciaru, sbattuliaru,
l’addini – carcariau
quarcuna – e si zzitteru.
Aisai ’a testa.
                      Fermu
stesi, appagnatu, pi
capiri.
Arreni ddu strallàscitu:
e ’i vuci, ’a vuci, ’i vuci
ri l’addini.
                 Stappai
annunca, mi nni scii
fora cu tuttu ’u lumi.

’Un vitti vurpi e mmancu
bbaddòttula fuìri.
Pi nno rarrè ra rriti
l’addini, ntrunatizzi ( aisi un peri,
accura, e ’u posi; e ddoppu
l’àvutru, tisu) chi
nno scuru si muvìanu.
Tirai ’u firriggiaru.

Nterra chiddu chi cc’era
ri pinni stravuliati,
ri sbizziatini ri
sangu…
Avia un’addina ’a testa
ascippata.

Onnumani me’ matri
spinnau l’addina, ’a fici
a bbroru.
              Mi mussiavu
eu pi ddavanti ô piattu
chi purtau, mi pusau
ravanti.
“ ’Un cci pinzari” rissi
me’ patri. “ ’Un cci pinzari.
Mancia, ch’è bbonu, mancia, ’un cci pinzari ”.
E vvirennu chi stavu raccussì,
cu ’a bbuccetta nna manu,
senza chi ddiciria,
seriu, sicuru: “E pènzacci”
mi rissi.

Sembrava che stesse immobile/ la fiamma./ Se la guardavo/ fisso mi accorgevo/ invece che tremava.// Queste cosette/ che girano, di notte,/ attorno al lume e sbattono: ce ne sono/ sul tavolo ferite,/ bruciate dentro/ il tubo, sopra il libro/ ce ne sono, sui fogli, che/ barcollano.// Uno starnazzo da/ fuori, dal pollaio,/ giunse./ Vociarono, svolazzarono/ le galline – qualcuna/ chiocciò – e si zittirono./ Sollevai la testa./ Fermo/ rimasi, allarmato, per/ capire./ Di nuovo quello strepito:/ e le voci, la voce, le voci/ delle galline./ Mi alzai/ allora, me ne uscii/ fuori con tutto il lume.// Non vidi volpe né/ donnola fuggire./ Dietro la rete/ le galline, intontite (alzi una zampa,/ attenta, e la poggi; e dopo/ l’altra, tesa) che/ nel buio si muovevano./ Spostai il chiavistello.// A terra quello che c’era/ di penne sparpagliate,/ sprizzate di/ sangue…/ Aveva una gallina la testa/ staccata.// L’indomani mia madre/ spennò la gallina, la fece/ a brodo./ Tentennavo/ io davanti al piatto/ che portò, mi posò/ davanti./ “Non ci pensare” disse/ mio padre. “Non ci pensare./ Mangia, che è buono, mangia, non ci pensare”./ E vedendo che stavo così,/ con la forchetta in mano,/ senza che decidessi,/ serio, deciso: “E pensaci”/ mi disse.

Lettura di Antonio Lanza 

Nino De Vita è insieme poeta e narratore. A una versificazione regolare fatta di settenari ed endecasillabi, corrisponde infatti una sapienza squisitamente narrativa e, a volte – come mi pare di poter rilevare in questo caso nell’inedito che presentiamo ai lettori – grazie a un accorto uso del montaggio delle varie sequenze, addirittura cinematografica. Sei per l’appunto sono le sequenze, scandite dalle strofe attraverso cui si snoda il testo. Uno scalino metrico, però, fa da raccordo tra la prima e la seconda (a formare, guarda caso, un endecasillabo: «ammeci chi trimava. // Sti cusuzzi»), accomunate da un’atmosfera meditativo-descrittiva, tale per cui a ben vedere le sequenze sono riducibili a cinque.
Nella prima parte, infatti, l’autore sembra voler preparare la scena. Attraverso l’apparente immobilità di una fiamma, De Vita ci riporta alla sua infanzia negli anni Cinquanta, a Cutusìu, contrada del marsalese, e a un mondo scomparso: un’abitazione priva di elettricità, una stanza dove a tenere lontana la notte è soltanto un lume. Di quel lume che rivestirà, come vedremo, un’importanza centrale nell’economia del testo, viene raccontato per il momento, qui, il potere ammaliante, magnetico; o mortale. Attratti dalla fiamma, gli insetti («sti cusuzzi»: così, emotivamente partecipe, De Vita) finiscono per ferirsi o bruciare vivi. Ma la loro sorte, terribile e allo stesso tempo senza apparente importanza, ha la funzione di anticipare i temi – la morte, il male, il loro imperscrutabile accadere – e preparare il lettore a un altro evento, quello principale.
«Una stracquata» («Uno starnazzo») proveniente dall’esterno interrompe la prima sequenza, dove a predominare era la funzione dello sguardo («s’ammicciavu», «trimava»), ed apre alla seconda, dove il senso privilegiato è rappresentato invece dall’udito, attraverso cui l’autore ci restituisce, precisi ma anche inevitabilmente indeterminati, i suoni che giungono dal pollaio. Qualcosa di oscuro fuori sta infatti avvenendo, ma possiamo tentare di capire («capiri», isolata infatti nel verso, funge in questa seconda parte da parola chiave, come – per lo stesso motivo – era «’a ciamma» nella prima) solo sforzando le orecchie all’ascolto, e aspettando il seguito. L’indugio è rotto dopo che l’io narrante avverte un nuovo schiamazzo («e ’i vuci, ’a vuci, ’i vuci»: magnifico polittoto). Il ragazzino esce di corsa. Per vedere. Accertarsi con i propri occhi. Con in mano, appunto, il lume, lo stesso che gli aveva prima permesso di assistere all’assurdo comportamento degli insetti. L’evento è già accaduto, però. L’autore ce l’ha fatto esperire, come si diceva, solo attraverso l’udito, una resa parziale quindi, ma con l’effetto di aumentarne la carica sinistra.
La terza sequenza, che coincide con la quarta strofa, è dove la suspense del racconto raggiunge il suo culmine. All’ultimo verso («Tirai ’u firriggiaru»: «Spostai il chiavistello») è come se noi lettori fossimo alle spalle del ragazzo, trepidanti e impauriti con lui, ad aspettare, finalmente, di vedere. È appena il caso qui di notare come l’avvicinamento al pollaio avvenga però nella precarietà, o addirittura nella totale assenza, della visione: «’Un vitti vurpi e mmancu / bbaddòttula fuìri» («Non vidi volpe né / donnola fuggire»).
All’interno del pollaio, la scoperta: il sangue, una delle galline (certamente quella la cui voce si alzava con una nota diversa nel settenario su riportato: «e ’i vuci, ’a vuci, ’i vuci», corsivo mio) con la testa staccata dal corpo. È la strofa più breve, appena sei versi, descrittiva, asciutta, priva di alcuna notazione psicologica. Spetta al lettore completare il racconto della scena: il ragazzo paralizzato con il lume alzato sopra l’orrenda mutilazione: a fare luce, a cercare di capire.
L’ultima sequenza ci impone subito un salto temporale. Un’intera nottata è trascorsa. Della reazione del ragazzo non sappiamo nulla. Adesso è a tavola, la gallina è stata spennata e fatta a brodo. La situazione sembra essere pacificata. Il trauma riassorbito. Per la consumazione del pasto i genitori – adulti che hanno già fatto esperienza del male, ne conoscono l’inevitabilità e hanno imparato a fare all’occasione di necessità virtù – non avvertono alcun tipo di remora di natura etica. Ma il ragazzo, ingenuo, sì. Il padre inizialmente lo esorta a non badarci; reitera più volte l’invito, a non pensarci e mangiare, fino a dispiegarlo in un bellissimo endecasillabo: «Mancia, ch’è bonu, mancia, ’un ci pinzari» («Mangia, che è buono, mangia, non ci pensare»). È come se solo mangiandola, la gallina, ingerendone le carni che hanno patito il male, si possa davvero farci i conti, col male, accoglierlo nella vita e accettarlo come un aspetto necessario della vita stessa. Non acriticamente, però. E infatti, perseverando l’indecisione del figlio, il padre si arrende, sa di non potergli imporre nulla. Quel «E penzaci» è il più luminoso atto di amore. Il lume che la notte prima aveva portato il ragazzino allo scoperta dell’accaduto è diventato adesso lume di ragione, lavorio di pensiero.
È, in ultima analisi, questo di De Vita, anche se non ci è dato sapere cosa il ragazzo sceglierà di fare – l’ultima e la più efficace delle lacune presenti nel testo (si legga, a questo proposito, il bel libro di Nicola Gardini intitolato Lacuna. Saggio sul non detto) – il racconto di una presa di coscienza, uno straordinario racconto di formazione.

 

 

ph Nino De Vita di Angelo Pitrone 

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