“Ai giorni passati pienamente diedi avviso alla S.V. del mio ritorno e, se ben mi ricordo, le raccontai di tutte queste parti del mondo nuovo, alle quali io era andato con le caravelle del serenissimo re di Portogallo: e se diligentemente saranno considerate, parrà veramente che facciano un altro mondo, sí che non senza cagione l’abbiamo chiamato mondo nuovo, perché gli antichi tutti non n’ebbero cognizione alcuna, e le cose che sono state nuovamente da noi ritrovate trapassano la loro openione.”

(Amerigo Vespucci, 1454 – 1512)

Giovanni stava sdraiato sul molo vecchio; le pietre che lo costituivano erano ancora ben assemblate e solide, nonostante le infinite onde che vi si abbattevano da oltre sessant’anni.
Il sole tiepido della primavera portava quel dolce tepore che rinfranca le ossa e l’animo.
Alzò una mano al cielo, giocando con un occhio chiuso a prendere, tra il pollice e l’indice, una lontanissima e solitaria nuvola bianca.
Il mare, quasi immobile, era pieno di riflessi e di scintille di luce.
Poi si girò verso Adele, che stava nascosta sotto i suoi ricci mori, appoggiata al suo fianco, e come un bacio le disse: “Viviamo in un sogno, morbidamente sdraiati su di un morbido letto. Come un dolce riposo, come un fresco rinfrancarsi, come una lunga anestesia, come nella febbre di una malattia… come in una meritata morte”.
Apparvero sulla fronte di Adele le tipiche rughe di chi si acciglia per capire.
“Il sole non è poi così caldo da rincitrullirsi; cosa vuoi dire?”, rispose lei, mentre, puntando il gomito, si tirava al di sopra di lui e notava, solo adesso, una strana tristezza mai vista finora, qualcosa di profondo che subito la impaurì.
I lunghi ricci di Adele costituivano un modesto riparo dal sole per il viso di Giovanni, che, per un attimo, si distolse da quel pensiero buio che affliggeva la sua mente.
Con un gesto automatico Adele ripose una copiosa ciocca di capelli dietro l’orecchio e il sole tiepido tornò a illuminare la fronte liscia di Giovanni.
Lui tirò un grosso respiro, come a voler raccogliere tutto il fiato possibile per un’immersione subacquea, e, con queste parole, si tuffò nell’abisso dei suoi oscuri pensieri:
“Sento che nessuno è libero, sento che il mondo grava su ognuno di noi. Sento che quello che chiamano progresso è in verità barbarie e che non c’è posto dove io possa sentirmi felice.
Sento che il lavoro è solo una schiavitù e non un virtuoso piacere del fare, che la carriera è totalmente scissa da ogni forma di meritocrazia; che una famiglia è solo un obbligo sociale e non più morale, con figli telelobotomizzati da quiz idioti e istruiti al consumo immediato per il soddisfacimento di bisogni banali; che la ricchezza, e l’invidia che ne consegue, è correlata a quanti elettrodomestici hai e a quanti puoi mantenerne accesi, continuando così a sperperare e a sporcare il mondo; che l’invidia ti lega ad amici con cui puoi esibire il tuo avere senza condividerlo, ma solo vantartene a cena, dove sfoggi vestiti e mobili firmati da esseri spregevoli che sfruttano altri schiavi sparsi per il pianeta.
Sento l’avidità del consumo come tentativo di rinnovare rapporti decrepiti e marci, con mariti che regalano anelli alle mogli e completini sexy alle amanti, prigionieri di un’etichetta che non esiste più e delle loro depravazioni, a cui non vogliono apparentemente cedere, perché loro valgono! E perché gli spacciatori di questo mondo drogato reclamizzano tutto ciò come la felicità.
Sento che nessuno domanda a se stesso “Chi sono?”, senza che un’immediata risposta giunga dal profondo a ribadire “Io, io, io…”, e non contento lo sbatte in prima pagina su tutti i possibili social del web, mostrando quello che fa, quello che ha mangiato, quello che pensa sui gay, sui negri, sull’aborto, sui cani e su tutte le altre cazzate a rotazione di moda sui media, fumando una sigaretta elettronica fatta con materiali riciclati, a costo zero per le industrie, ma a solo cento euro per te. Sento che tutti sanno già tutto e che, continuando a sbagliare, nessuno impara dai propri errori.
Ieri, oggi, domani, dopodomani e ancora, finché gli stronzi che abbiamo cresciuto nel sogno americano si vergogneranno di noi e ci parcheggeranno in un ospizio tetro e squallido a giocare a tombola con i malati terminali.
Di noi rimarrà solo la spazzatura, perché questo siamo”.
Adele prese la faccia di Giovanni tra le mani, lo baciò intensamente e quasi subito passò la lingua sulle sue labbra. Spinse il suo corpo sul suo, sicura del suo fascino, delle sue forme e dell’effetto che suscitavano su di lui, poi con voce suadente disse: “Tu sei il mio Adamo e io sono la tua Eva, ripopoliamo questo mondo… è tutto quello che possiamo fare”.
Il sole si spegneva all’orizzonte, il mare continuava il suo lieve cullare, non esisteva nessuno al mondo, in quella notte, che fosse più ricco di loro.

 

(ph Rachel Bellinsky)

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