Un’esperienza di vita alla festa di Antigone

Antigone bianca
Antigone bianca

 

παντοπόρος· ἄπορος

Un’esperienza di vita alla festa di Antigone

Domenica 16 giugno avrei sbafato more solito una bella padella di rognone [1], non fosse che c’era cuore; al laboratorio su Antigone che doveva iniziare alle 14:30 sarei giunto con un quarto d’ora d’anticipo, non fosse che mi sono perso [2]. Strano, perché è zona mia, e più strano ancora perché la domenica prima avevo “condotto” una ventina di amabili sconosciuti proprio per quelle vie, a una deriva post-de-bordiana che s’era arenata sull’asfalto di via del Ricordo (avendoli invitati a guardare il marciapiede come opera d’arte, fatalmente il ritmo rallentò, fino a sopire) [3]… e mo, invece di raggiungere via Caroli, m’ero infognato lì: anamnesi? luogo del delitto? cane & piscia? Chissà. Fortunatamente trovai un passaggio stretto tra due file di condominî geometrili, e per lì alle 14:30 spaccate sbucai nella sala immensa, tutta luce e lucernari, con tante sedie in cerchio già occupate. Normalmente in situazioni simili parlo di cose che non capisco (con l’idea che grazie agli altri magari arriverò a capirle), e così spiaccicai quella frase astrusa di Hölderlin (da quanto semplice), che Edipo re è un incontro di boxe e Antigone una corsa di mezzofondo. Mezz’ora dopo eravamo ancora lì, con l’unica magra “scoperta” che l’incontro era in ventiquattro riprese e la corsa durava mezza giornata. Pochino, se non che una negretta  specificò: il ring è quadrato, la pista circolare; io allora: lì spazio chiuso, qui aperto; infine Hölderlin in persona: la tragedia essere spazio-tempo vuoto e l’Antigone trionfo del paradosso. Ma se vale ciò, vale ancora chiederci chi dei due ha ragione, la sorella o il tiranno, o non dovremo piuttosto chiederci cos’è ragione/torto, cos’è cioè giustizia?

A questo punto passai alle vie di fatto: aprire zaino, estrarre Antigone di Sofocle nella traduzione di Friedrich Hölderlin [4], a botta certa andare su stasimo primo v. 332 e… non capii più niente! La versione italiana in calce non corrispondeva affatto alla traduzione tedesca, e così così all’originale greco: tornare al frontespizio… era quella di Giuseppina Lombardo Radice, 1948! Che fare? Ben lo seppe la troupe, decine di attori che, profittando del mio sbandamento, levarono le tende perché tempo di prova generale. E le persone rimaste, più della metà, di età media assai minore? Pendevano dalle labbra, che rifiutavano di muoversi – finché: “ora che sono andati i grandi, possiamo lavorare: traduciamo insieme, su! Chi sa il greco?” – tre mani alzate. “E il tedesco?” – una. “Più che sufficiente.” – perplessi e/o divertiti sorrisetti a metà. Però occorreva il dizionario, non un dizionario, no, quello per antonomasia: così ci trasferimmo nella sala-computer et voilà, i fratelli Grimm in teleconferenza [5]!

A proposito di corsa, è stata una maratona: quattro ore per una manciata di versi, neanche lo stasimo intero. Ma quanto discutere (soprattutto sui primi due), e quanto ridere, e anche bere, perché i prosecchi (come del resto i computer) giravano a pieno ritmo grazie all’amorosa solerzia dei tecnici (i.e. i giovani borderline e/o extracomunitari frequentanti la Fondazione). Alla fine, sfiancati, eravamo tutti fieri della “nostra” traduzione da Hölderlin – la prima in Italia, la prima in Italia [6]!

Ma non era finita, bisognava limare, e mentre gli altri sciamavano giulivi, rimasto solo passai al computer un’ultima ora abbondante, interrotta soltanto dal magico planaggio di un piatto colmo di Boer [7]. Dopodiché alle 21:30, davanti a una platea fremente che lo spettacolo iniziasse, lessi lo stasimo menzionando prima qualcuno almeno dei partecipanti: e Zina del Senegal, e quelli dell’Ex-Cuem, e la crucca verace Klara, e mia figlia Caterina…

 

Molto c’è che stupisce. Ma
nulla più dell’uomo.
Ché lui nel buio
mare esce, quando libeccio
sferza inverno,
in fendenti case alate.
E l’eccelsa fra i celesti Terra,
l’incorruttibile, indefessa,
lui la estenua; con l’avido aratro
anno per anno
armeggia,
uomo che tanto sa.
E il discorso e il pensiero
etereo, e orgoglio di governo
ha appreso.
Ferrato in tutto, ignaro. A nulla approda.
Solo il luogo futuro dei morti
non sa fuggire,
benché trovi rimedio ai più insidiosi morbi.
Qualche saggezza possedendo e la perizia
dell’arte oltre ogni speme,
un dì s’inoltra al male, l’altro al bene.
Se osserverà le leggi, i patti
con la Terra e gli dèi ctoni,
verrà dalla città esaltato; espulso
invece, se il bello sarà in lui con arroganza [8].

 

Accovacciato a terra, seguii la rappresentazione fino allo stasimo, che però saltarono. Poi la testa mi rimbombò di locuzioni e voci come una campana; spuntavano a casaccio e a casaccio sparivano, tutti dallo stasimo tradotto of course, finché otto voci si disposero a coppie e non mi abbandonarono finché non calò il sipario (che non c’era): allbewandert|unbewandert,  παντοπόρος|ἄπορος; hochstädtisch|unstädtisch, ὑψίπολις|ἄπολις. Come me l’ero cavata? Traducendo ferrato in tutto|ignaro e dalla città esaltato|espulso, ossia maluccio perché tradivo la costanza dei termini (-bewandert|-πορος, –städtisch|-πολις) e la simmetria dei prefissi (all-|un-,  παντο-|ἄ-; hoch-|un-, ὑψί-|ἄ-); anzi male, perché nel primo caso perdevo la sostanza che il genio manteneva, significando πόρος, prima che espediente,  passaggio-via-sentiero, e bewandern vagare per più vie, da cui essere esperti; anzi malissimo, perché snobbando quattro ossimori umiliavo la teoria della tragedia come paradosso, che dell’ossimoro è la logica struttura.

Al gran brindisi finale mi accodai mogiomogio recidivo, ovvero replicando in tanti minibrindisi ad personam, giusto per dimenticare. L’ultima di quelle personae dai profili sempre più vaghi m’infilò nello zaino il manifesto arrotolato della festa, dopodiché partii infilando il medesimo passaggio… passaggio? via?! sentiero! de me dunque fabula narratur? sì, anche de me, ferrato in tutto e ignaro, che conoscevo così bene quella zona da perdermi del tutto!

L’ironia della sorte mi mise di buon umore, via del Ricordo tornò ad avere senso. Una volta a casa, in un empito onfalopsichitico stappai una birra, srotolai il manifesto puntando dritto onde bearmi sulle 14:30 e… non c’ero solo io: “Dario Borso e Xenia Comissis: Le ragioni di Antigone, cerchio filosofico sui perché di una storia che ci riguarda”. Puntai drittissimo sulla pagina fb dell’evento, e Xenia non c’era; controllai il pdf del programma che mi avevano spedito, nemmeno.

Libando alla dea Ceres ossia scolando una seconda birra, ricordai. Sabato 8 giugno c’era stato il Baghetta, la festa itineran-bewandert della poesia che, persi per strada svariati orazi e curiazie, s’era ridotta a un centinaio di fedeli-giurati sparsi intorno alla fonte di via Benedetto Marcello, lesti a bere, cantare, ballare e tardi assai a votare; mimetizzata in mezzo, pronta ad ogni evenienza e sempre parlando in tongues, una dozzina tra pentecostine e intercostali faceva la spola dal/al santo spirto, incorruttibilmente immoto sui gradini, in posizione-loto. Alle 02:30 non c’era più un fedele, ma rimaneva il resto, e tra il resto Xenia, pentecostina dell’ultim’ora con pedigree di ferro: magnagraeca giramondo, occupante Ex-Cuem lineadura, neo-avvocatessa dottoranda in sociologia del diritto…

Ci trattammo da signori, al baracchino: ondate di negroni, a smaltire il tannino accumulato in tanto rosso popolare durante la serata. Il frastuono era infernale, ciascuno parlava per sé ma capivamo tutti, Maria rideva sempre, Martina mimava il sesso newyorkese, Enzo faceva oroscopi animali, Lilia ripeteva a manetta la ricetta dei falafèl, Vincenzo Iotammazzerò fresco di ex-equo chiedeva chi era chi senza attendere risposta, finché per ristabilire l’ordine lievitai sulla sedia e dissi: “Venite alla festa di Antigone, ci mangeremo il cuore”. (E Giuda?)

Risprofondato, seguì un momento intimo con la mia vicina: che lei ha fatto legge per Antigone, che non si stanca di rileggerla, che io alla matura dovei portare i primi mille versi dunque ignoravo il finale… Issofatto la assoldai (il giorno dopo infatti comunicai le generalità agli organizzatori), sfarfallò via a pentecostare, e la rividi verso l’alba, quando ci salutò a Vincenzo e a me con la manina incamminandosi da sola verso il centrocittà: ultimo fotogramma, un paio di ballerine.

M’avrà preso per Creonte? Avrà seguito il suo omennomen? O era soltanto Ismene? Sta di fatto che sparì, e dopo averla cercata invano lunedì, martedì mi misi il cuore (ancora?!) in pace notando con sollievo in rete che gli organizzatori non avevano mutato la scaletta. Una cosa però mi è rimasta di lei, seppur parziale: in una foto ai vincitori compare di sbieco con l’iphone, fotografa fotografata, giurista giurata, più Velasquez che Blow up [9].

 

I vincitori
I vincitori

[1] Il prediletto di Leopold, http://it.wikipedia.org/wiki/Bloomsday .

[4] Einaudi, Torino 1996, preso in prestito il giorno prima alla Sormani, manco aperto.

[5] http://woerterbuchnetz.de/DWB/ . “Più affascinante delle fiabe”, esalò una ragazza, giunti al fondo della voce ungeheuer.

[6] “Imitazione” l’avrebbe detta il Conte, “scimmiottatura” invece Goethe e Schiller, che ne risero. Questa dell’Antigone sofoclea fu l’ultima fatica di Hölderlin prima dell’internamento psichiatrico; ci sarebbe voluto più di un secolo prima che uno cominciasse ad apprezzarla.

[7] “Carpaccio di cuore [vivente, martoriato] di vitello confit poi planciato, salsa di rape rosse sotto senape [sangue versato, ricetta di Ateneo], tre terre sopra [sepoltura] a base di funghi, rape e patate”. Eugenio, che me la portò in persona, alla mia troppo rapida deduzione “veneto eh!” replicò: “Olandese”. Già, boero non bovaro.

[8] Ungeheuer ist viel. Doch nichts/Ungeheuerer als der Mensch./Denn der, über die Nacht/Des Meers, wenn gegen den Winter wehet/Der Südwind, fähret er aus/In geflügelten sausenden Häusern./Und der Himmlischen erhabene Erde,/Die unverderbliche, unermüdete,/Reibet er auf, der kundige Mann./Und die Red und den luftigen/Gedanken und städtebeherrschenden Stolz/Hat erlernet er. Allbewandert,/ Unbewandert. Zu nichts kommt er./Der Toten künftigen Ort nur/Zu fliehen weiß er nicht,/Und die Flucht unbeholfener Seuchen/Zu überdenken./Von Weisem etwas, und das Geschickte der Kunst/Mehr, als er hoffen kann, besitzend,/Kommt einmal er auf Schlimmes, das andre zu Gutem./Die Gesetze kränkt er, der Erd und Naturgewalt’ger/Beschwornes Gewissen;/Hochstädtisch kommt, unstädtisch/Zu nichts er, wo das Schöne/Mit ihm ist und mit Frechheit.

[9] E una domanda è rimasta a me, ma così imbarazzata, così disperata, da celarsi in nota: chi di noi due più unstädtisch?

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