Valerio Magrelli, la poesia è un’Urgenza

«E se questi giri di serratura / non finissero più? / E se dovessi restare tutta la vita / qui fuori, a girare la chiave? / E se perdessi la chiave? / Faccio la copia delle mie chiavi / faccio la copia delle mie copie / quello che spendo per moltiplicarle / serve a togliere a ognuna il suo valore / il mio Valerio. Nel profilo dei versi / io riproduco la sagoma / dentellata delle chiavi.». Versi emblematici, forse gli unici dove appare apertamente l’autore, Valerio Magrelli, scelti da “Le cavie”, prezioso volume pubblicato da Einaudi che, raccoglie, a partire dal primo libro, “Ora serrata retinae” (1980), tutte le poesie scritte fino al 2018, compresi alcuni inediti. Versi riconoscibili (anche) per l’intonazione, l’approccio ludico, l’esplorazione. Versi insieme ai quali riportiamo questi altri, «La legge morale dentro di me, / l’antenna parabolica sopra di me», per aggiungere al nostro ritratto le cromie connaturate dell’ironia, del citazionismo (vedi Kant), dell’accesa cerebralità, dell’inedita “conciliabilità”.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla sua prima poesia?

È curioso perché pensavo di aver cominciato a quindici, sedici anni, al ginnasio diciamo, e invece sistemando dei quaderni ho scoperto addirittura che c’erano delle poesie, e per me questa è la cosa veramente più stupefacente, che non solo avevo scritto a 12 anni, questo è comprensibile, ma, cosa veramente impressionante, che avevo battuto a macchina il che vuol dire che, al di là della scrittura, c’era proprio un impegno, evidentemente, sin dalle scuole medie. Rispetto all’aneddoto, ricordo perfettamente che ne parlai a mio padre, con cui avevo un bel rapporto, e lui disse “non ti preoccupare è come le malattie tanto poi passa”, invece a me non è passata.

C’è un passo, una poesia, uno stralcio di versi, nel quale, all’occorrenza, ama rifugiarsi?

Sì è di Baudelaire, si chiama in francese “La servante au grand coeur”, “La tata dal grande cuore”. Lui si rivolge alla madre e dice: “la nostra domestica, la cameriera che era così generosa e di cui voi mamma eravate gelosa” – perché la madre evidentemente era gelosa, giustamente, di questa che più che essere una vice madre era probabilmente la vera madre di Baudelaire -, e allora dice: “quella servante quella cameriera – e c’è un bellissimo anacoluto – noi le dovremmo veramente purtant (eppure) – come un senso di rimorso – le dovremmo davvero portare i nostri fiori… E poi, continua “i morti poveri morti hanno dei grandi dolori…”. Sentivo anche la canzone, la cantava qualche grande musicista francese, non ricordo quale, purtroppo mi rubarono il cd che avevo in macchina e non l’ho mai più sentita ma è una poesia a cui sono legatissimo.

Della poesia, straordinaria “lente antropologica”, qual è la meta?

La meta della poesia come dice la parola, l’etimo, è fare. È una specie di grande prova del fare … Penso che finché l’uomo sarà tale, tale da un punto di vista genetico, finché metteremo mani sulla nostra sostanza ci sarà sempre poesia; poi, sono molto interessato alle trasformazioni scientifiche, tecnologiche, nel momento in cui ritoccheremo il dna, non lo so amplieremo la memoria, sconfiggeremo le malattie, a quel punto, forse, la poesia potrà scomparire, ma non prima.

Assodato che la sua è una poesia del presente, che non indietreggia di fronte alla realtà, che facendosi carico della realtà la indaga scavandovi dentro, le chiedo: qual è la sua ‘attuale’ (perché magari col tempo è cambiata) spiegazione/definizione di poesia? Cosa comprende? (la sua definizione “apparecchi per caricare senso” la uso dopo per un’altra domanda).

Circa dieci anni fa scrissi un libro intitolato “Che cos’è la poesia?” con un punto interrogativo che doveva essere talmente importante da venire scritto in rosso. L’editore è un mio caro amico. Mi divertii molto perché pensai a 21 voci, un abbecedario e – combinazione – una settimana fa (questa intervista è stata realizzata lo scorso 8 aprile 2019) è uscito un libro di quello che probabilmente è tra i maggiori critici letterari europei oltreché italiani, Pier Vincenzo Mengaldo, ce l’ho qui sul tavolo, intitolato “Com’è la poesia”. Lui dice “se non è possibile dire che cos’è la poesia, voglio dire com’è”. Io, invece, accettai questa sfida in maniera ironica… tanto è vero che scrissi delle voci a mo’ di arcipelago e alla fine, sembra assordo ma visto che ritornavo all’etimo che ho appena citato… – (il fare, il fare) – sono tutte voce molto puntuali, specifiche, addirittura tecniche, tranne una che è molto provocatoria che è la “U” di “Urgenza” nella quale io paragono addirittura la poesia a degli escrementi sulla base dell’etimo: fare, diciamo ai bambini “hai fatto?”, “fatto” è la pupù, il riferimento è alla pupù – ma questa non era una mia idea bensì, incredibile a dirsi, e neanche l’idea di uno sperimentalista, di un provocatore, di un dadà, era l’idea del più grande dei simbolisti Valery -. Cioè Paul Valery scrive proprio questo: la poesia è il nostro atto più impuro e la paragona alle feci. Ecco perché dico questo, perché trovo di etimologia in etimologia un’espressione italiana incredibile (toscana) dove appunto “le feci” si chiamano “le fatte”; adesso al di là del paradosso e della ironia che tutto questo nasconde, “ma come?”, paragonare il più alto prodotto dell’agire umano agli escrementi è importante capire che proprio la poesia ha a che fare con questa totale intimità dell’uomo con se stesso, un’intimità attraverso cui parla del mondo.

Il carattere apodittico e affermativo della sua poesia che “dice” senza mai essere “didascalica” è più dettato da una scelta o è più un dettato?

No, non è una scelta. La cosa bella della poesia è proprio che chi scrive per primo resta stupito di quello che accade. Non lo dico in senso dannunziano carico di suggestioni mitiche, lo dico proprio per lo stupore di chi avanza. Noi avanziamo di verso in verso, noi non sappiamo quando siamo al verso tre cosa sarà il quattro, per saperlo lo dobbiamo scrivere. È una specie di paradosso, no?

È possibile definire compiuta una poesia?

Io credo, alla fine, sì, perché qui mi viene in mente (non vorrei fare un’intervista molto escatologica) una bellissima idea di Bruno Munari, uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica del XX secolo, un grande studioso, che diceva: “è come un uovo, a un certo punto si chiude in se stessa e arriva”; certo, dipende, ovviamente, da poesia a poesia. Dico sempre che non esiste la poesia ma le poesie; ognuna ha una sua legge, ognuna un universo a sé stante e tuttavia, ecco, io credo che esistano certi testi dalle forme che avvisano la fine del processo; spesso faccio l’esempio che mi colpì molto, avendo avuto due figli, di quella che si chiama nei bambini la fontanella: c’è un foro nella testa che crescendo si chiude, proprio un interspazio, nell’occipite non saprei collocarlo, ecco quando si chiude la fontanella, come nei bambini, la poesia è conclusa.

Con i suoi versi, “Ti guardo, cerco di guardarti dentro”, per chiederle: la parola poetica può colmare “quel dentro” da cui ci si sente “irrimediabilmente” esclusi? E, ancora, sovviene Pirandello, “come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro”?

Io trovo sempre che siamo di fronte ad una negoziazione del senso… questo è molto bello, non lo abbassa anzi tra chi scrive e chi legge c’è proprio un accordo, una stipula, alcuni critici, l’idea non è mia, hanno parlato di contratto; qualcosa di molto bello, di molto umano, perché ci riporta al nucleo del nostro essere comunitario.

In un mondo sempre più incapace di ascoltare questi “apparecchi per caricare senso”, come definisce la poesia nella sua “La poesia”, funzionano? E, ancora, in che modo la scuola potrebbe o dovrebbe intervenire per avvicinare gli studenti alla poesia? Quale l’approccio possibile, ‘giusto’?

Sono sempre stato molto critico sul “come la scuola” però devo dire che dopo gli attacchi alla scuola pubblica degli ultimi venti anni, equamente distribuiti tra destra e sinistra, oggi come oggi ritengo che gli insegnanti siano praticamente degli eroi, delle figure da ammirare e non mi sento per niente più di avanzare nessuna critica ma al di là di questo dico che siccome mi è capitato spesso (ora un po’ meno) di tenere lezioni anche nelle scuole (medie, elementari ecc…) devo dire che gli strumenti attuali di analisi sono formidabili poi tutto è affidato alla sensibilità dell’insegnante, quindi varia moltissimo. Dovendo dire una cosa, tornerei all’idea di qualche verso imparato a memoria, questo fa molto bene, è stato invece abbandonato; certo, aggiungo, se penso alla mia scuola, a me fecero imparare a memoria una poesia di Rilke, dico tu non mi fai imparare Rilke mi fai imparare la sua traduzione ovvero fai degli errori marziani, no? Non si fa imparare a memoria la traduzione a meno che non sia, non lo so, l’imitazione di Leopardi (!!!) bisogna imparare a memoria poesia in originale e dunque in italiano; e l’unica cosa che mi sentirei di aggiungere.

Confrontandomi con un campione di studenti penso di aver capito che la domanda che li terrorizza è “che cosa vuole dire il poeta”, forse bisognerebbe chiedere “che cosa ti dice il poeta”? o no?

Bravissima, bravissima, e per citare ancora Mengaldo soprattutto “come te lo dice”, più che altro dico questo perché è importante la maniera in cui si sceglie di dire una cosa, forse addirittura più importante della cosa stessa da dire.

Se gli “Esseri doppi… dimezzano il mondo” in che modo possiamo permettere alla poesia di entrare in circolo per raddoppiarlo (di senso e consapevolezza)?

Non lo so. Provo a farlo e basta, questa è la verità. Nessuno lo sa.

Pensando alla sua “sintesi perfetta” tra poesia che tende alla prosa e poesia lirica (due tendenze determinanti del ‘900) chiedo: il futuro della poesia è nella poesia prosastica (tono piano, discorsivo proprio della prosa)?

Il futuro della poesia è nei poeti e siccome non lo sanno neanche loro ognuno proverà a modo suo perché – su questo insisto – ho iniziato a scrivere quando c’erano le grandi battaglie tra (semplifico) neoavanguardia e orfici, detesto con tutto il cuore le forme di semplificazione di allineamento, di contrapposizione, sono addirittura per un individualismo assoluto, trovo che neanche un poeta è individuale, trovo che addirittura ogni poesia è un mondo a se quindi ogni forma di generalizzazione… dobbiamo affidarci a quello che fanno gli autori che a noi piacciono – certo, ci sono quelli che interessano e altri no – e stare a vedere loro come si orienteranno ma queste sono semplificazioni in cui non mi riconosco ecco: le soluzioni sono sempre individuali, questo mi sentirei di eleggerlo a norma.

Pensando ad una delle peculiarità della poesia, esistono dei versi che l’hanno spiazzata?

Come no? Guardi è incredibile perché poi con la poesia succede una cosa strana. Se ho una virtù è quella di riconoscere le cose che non so, non ho alcuna difficoltà anche perché onestamente ne so talmente tante che posso anche ammettere che alcune le ignoro quindi non è un modo di dire, no? Quando si dice sto rileggendo quel libro, perché si da per scontato che tutti siamo obbligati ad averlo visto, no? Come non hai mai letto? Ecco, quindi, chiarito questo voglio segnalare come non solo noi dobbiamo leggere ma dobbiamo rileggere; pensi che ieri (07 aprile 2019) ho letteralmente scoperto una poesia che non solo avevo letto ma poi sono andato a vedere che avevo appuntato, di Montale, figuriamoci, che mi era completamente sparita dal cervello e quella poesia, tutti conosciamo l’inizio, “addi fischi…”, quella sul treno, aspetti che la tiro fuori che ce l’ho qua, avevo dimenticato l’ultimo verso “Addii, fischi nel buio…” si chiama, no? “Addii, fischi nel buio, cenni, tosse”… è la descrizione di una stazione; scrissi dieci anni fa un libro che si chiamava “La vicevita (treni e viaggi in treno)” , un libro in prosa sul treno, uscita Laterza, e tra una settimana esce in una ristampa, stavolta di Eiunadi. Quindi s’immagini, uno dei poeti che amo di più è Montale, ho scritto un libro sul treno, s’immagini se non conoscevo la poesia di Montale sul treno, ebbene avevo completamente dimenticato l’ultimo verso – che da ieri ripeto e cerco di imparare a memoria -. Quando Montale paragona la litania del treno (ho fatto per trent’anni il pendolare, perciò la conosco molto bene, e cosa di cui vado molto fiero, sono diplomato in teoria e solfeggio, e la saprei solfeggiare) bene lui, Montale, definisce la litania del treno “un’orrida e fedele cadenza di carioca” – come un ballo brasiliano -, è fantastico… ecco, io probabilmente lo sapevo ma avevo dimenticato di saperlo quindi questo sta a dire quanto noi non abbiamo sempre presente ciò che sappiamo, è paradossale, spesso lo sappiamo ma lo dimentichiamo e quando riemerge noi abbiamo la stessa sorpresa della prima volta.

La riportiamo per intero:

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse
e sportelli abbassati. È l’ora. Forse
gli automi hanno ragione. Come appaiono
dai corridoi, murati!

– Presti anche tu alla fioca
litania del tuo rapido quest’orrida
e fedele cadenza di carioca?

 

Concludo invitandola a scegliere alcune poesie dal suo “Le cavie” (1980 – 2018) per salutare i nostri lettori.

O forse sono cavie,
queste poesie che scrivo,
per qualche esperimento concepite,
che tuttavia non so.

Non so perché si formano, eppure mi affeziono e le chiamo per nome,
topolini vivissimi, allarmati
da che?

 

 

L’abbraccio

Tu dormi accanto a me così io mi inchino
e accostato al tuo viso prendo sonno
come fa lo stoppino
da uno stoppino che gli passa il fuoco.
E i due lumini stanno
mentre la fiamma passa e il sonno fila.
Ma mentre fila vibra
la caldaia nelle cantine.
Laggiù si brucia una natura fossile,
là in fondo arde la Preistoria, morte
torbe sommerse, fermentate,
avvampano nel mio termosifone.
In una buia aureola di petrolio
la cameretta è un nido riscaldato
da depositi organici, da roghi, da liquami.
E noi, stoppini, siamo le due lingue
di quell’unica torcia paleozoica.

 

 

C’è silenzio tra una pagina e l’altra.
La lunga distesa della terra fino al bosco
dove l’ombra raccolta
si sottrae al giorno,
dove le notti spuntano
separate e preziose
come frutta sui rami.
In questo delirio
luminoso e geografico
io non so ancora
se essere il paese che attraverso
o il viaggio che vi compio.

 

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 21.04.2019, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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