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Wassily Kandinsky, Booooooom



Come evitare le forme sessiste nell’Italiano

Dell’importanza socio-politica della lingua ci si è resi conto da qualche tempo: solo nell’ultimo ventennio tuttavia, con il risveglio della coscienza femminista, con il moltiplicarsi di studi e approfondimenti sulla differenza di genere, si è cominciata ad acquisire consapevolezza di quanto e come la nostra lingua sia ricca di forme sessiste, che rispecchiano radicati valori patriarcali. Ciascuno di noi crede di poter controllare e manipolare la lingua secondo i propri bisogni e i propri scopi mentre è la lingua stessa che spesso ci parla, ci condiziona e produce effetti discriminatori e riduttivi nei confronti delle donne perché spinge a utilizzare lessemi, formule, immagini stereotipate. Diversi sono gli aspetti di problematicità che emergono nel corso del discorso. Secondo la teoria elaborata nei primi del Novecento da Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, il linguaggio influenza il pensiero e la nostra percezione della realtà. Questo modello ha preso il nome di “relativismo linguistico” a rilevare come il pensiero divenga “debole” in relazione alle possibilità “forti” che assume la competenza lessicale. La lingua rispecchia la società e la cultura in cui siamo immersi, ordina la realtà, la forma e la modella determinando e caratterizzando il modo di pensare comune: data la sua natura convenzionale, è facile dare per scontato il consenso al codice. Tra l’uomo e la realtà non c’è contatto diretto ma tutta una mediazione simbolica costituita da categorie percettive e concettuali, rappresentate appunto dalla lingua, dal mito, dalla religione, dall’arte; tale mediazione condiziona e guida la nostra visione della realtà, non a caso Cassirer aveva definito l’uomo “animale simbolico”. Recenti studi sui processi cognitivi hanno dimostrato che il nostro cervello pensi attraverso etichette linguistiche: anche quando non c’è chiesto di nominare gli oggetti, immediatamente dopo l’attivazione di aree cerebrali preposte alla visione, si attivano quelle preposte al linguaggio; di conseguenza elaboriamo pensieri e ricordi per mezzo del linguaggio verbale. La lingua segue di pari passo l’evoluzione della società, è un sistema di segni e regole che si trasformano nel tempo, essendo “una sovrastruttura, che nasce esclusivamente attraverso un processo naturale di sedimentazione a ritmo lentissimo…” [Devoto]. Fino a un secolo fa affinché un neologismo si affermasse, occorrevano tempi lunghi, nella società odierna invece é sufficiente un gruppo di trasmissioni televisive perché s’impongano in breve tempo diverse novità linguistiche. La lingua italiana presenta un alto grado di androcentrismo: tutto il patrimonio linguistico è organizzato intorno all’uomo. Sembrerebbe che in primo luogo sia avvenuta la cancellazione del femminile, poi la strutturazione secondo modelli che si riferiscono al maschile, successivamente la reintroduzione del femminile come variante. Si tratta di uno dei tanti condizionamenti che la donna ha dovuto tollerare per secoli. Per rendersene conto basta leggere i saggi della De Beauvoir, della Greer, dell’italiana Elena Gianini Belotti, che, nel 1970 scrisse il saggio “Dalla parte delle bambine” edito da Feltrinelli, sul condizionamento operato dalla scuola, dalla famiglia e dal contesto sociale sulle bambine. Il maschile assume i connotati di razionalità e concentrazione, il femminile diventa simbolo d’irrazionalità ed emotività, caratteristiche che ostacolano la conoscenza. Ne consegue la sua svalutazione. Anche nella costruzione della propria soggettività le bambine si sottovalutano mentre l’autostima da parte dei bambini appare esagerata. La stessa identificazione di genere e di conseguenza anche la scelta di giochi e giocattoli avvengono nell’età compresa tra i 2 e i 12 anni. In Francia il dibattito sulla questione di genere applicata alla lingua è talmente acceso e sentito che il ministro dell’Istruzione Vincent Peillon e la ministra dei Diritti delle donne Najat Vallaud Belkacem hanno ideato un programma scolastico contro il sessismo, Abcd de l’égalité, destinato alle scuole del primo ciclo. Linguisti e studiosi della lingua affermano che il genere grammaticale e il sesso non andrebbero confusi ma è innegabile che le parole riferite a uomini siano di genere maschile mentre quelle riferite a donne siano di genere femminile tranne che per poche rare eccezioni (es. la sentinella). Ora la dicotomia maschile/femminile è ovvia e necessaria; il problema però è che tale dicotomia non divide il mondo in due zone di pari poteri e importanza, mediante forme linguistiche stereotipate si rafforza la posizione di potere dell’uomo e la subalternità della donna nella società. Nelle coppie oppositive uomini e donne, ragazzi e ragazze, fratelli e sorelle, avviene sempre la precedenza del maschile affermandone la preminenza linguistica, un po’ come nei contrari il buono e il cattivo, il bello e il brutto, il vero e il falso, ecc. Secondo le regole grammaticali, alla presenza di una serie di nomi femminili e maschili, gli aggettivi, i sostantivi, i participi passati si concordano al maschile per assorbimento del femminile, anche quando c’è prevalenza di nomi femminili. Il fondamento androcentrico della lingua si ritrova anche nell’indicare le professioni, con facilità si utilizzano le forme cassiera, cameriera, infermiera, parrucchiera, riferite alle donne ma, nel momento in cui si passa a definire la professionista con laurea, emergono le incertezze e allora le forme ingegnera, prefetta, sindaca appaiono inconsuete e poco credibili, anche perché la presenza femminile in queste funzioni è ancora limitata. Se invece si fa riferimento a termini con il suffisso –essa come professoressa, (attestato per la prima volta nel 1881, nella Sintassi italiana dell’uso moderno di Raffaele Fornaciari) e dottoressa (utilizzato nel sonetto “La mi’ nora” di G.G. Belli del 1834), è evidente che tali resistenze linguistiche sono crollate miseramente e i termini risultano giustamente riscattati. C’è anche chi sostiene che termini come preside, deputato, notaio, ministro indichino ruoli e funzioni senza alcun riferimento di genere. La tesi è accettabile per lingue che non attuano distinzioni morfologiche di genere, non dunque per l’italiano. Il suffisso –trice oggi usato, dà luogo a forme regolari e diffuse come senatrice, direttrice. Il suffisso –tora invece è stato spesso utilizzato per indicare professioni riferibili a una sfera sociale bassa come pastora, fattora. Molte professioniste preferiscono il titolo al maschile per trasmettere maggior rigore e serietà: tale svalorizzazione instaura una relazione psichica di dipendenza dagli uomini. Va evidenziato anche il peso diverso di alcuni aggettivi o sostantivi se riferiti a uomini o a donne. Serio ha un significato diverso rispetto a seria così come onesto/onesta, pubblico/pubblica, ecc. La disimmetria semantica intende più o meno consapevolmente richiamare la volontà di controllo sociale del corpo delle donne e del loro comportamento sessuale. Anche con aggettivi epiceni (uguali al maschile e al femminile), in molti casi, si usa l’articolo maschile quando si tratta di cariche di prestigio (Es.: il Presidente della Camera Laura Boldrini). Talvolta interviene addirittura il modificatore donna anteposto o posposto al nome base (Es.: donna sindaco oppure ministro donna, ecc.) istituendo così altre forme disimmetriche: la donna sindaco deriva infatti dal sintagma «la donna che ha la funzione di sindaco», così come il «sindaco donna» deriva dal sintagma «il sindaco che (però) è donna»; spesso, il modificatore appare ingiustificato perché basterebbe l’articolo a specificare il genere. Altre forme discutibili sono zitella e scapolo; nel linguaggio burocratico si utilizzano rispettivamente nubile e celibe ma, mentre per zitella s’intende una donna nubile, di età avanzata e si usa in senso ironico o dispregiativo, scapolo si utilizza con riferimento agli aspetti più invidiabili della libertà maschile nei rapporti con la donna o con riferimento alla solitudine. Fortunatamente espressioni come “prendere moglie”, “portare all’altare” che ricalcano sempre lo stesso stereotipo, sono ormai anacronistiche. Anche il termine maschile / femminile ha una diversa connotazione: mentre è normale dire “una donna molto femminile”, non lo è allo stesso modo per l’uomo, mai sentito, infatti, “un uomo molto maschile”, semmai virile. Perfino nelle metafore non c’è reversibilità: esiste la “mangiatrice di uomini” ma non “il mangiatore di donne”, allo stesso modo l’espressione “gambe mozzafiato” si usa esclusivamente per la donna. Tra stereotipi e clichés c’è anche il pregiudizio della “piccolezza” della donna, che appare finalizzato a far passare la donna per una creatura fragile e indifesa, bisognosa di una figura maschile che le faccia da protettore. È vero che in molte razze la femmina è più piccola del maschio ma da qui ad estendere questa caratteristica anche agli aspetti intellettuali e morali ne passa. Anche l’abbigliamento femminile è descritto attraverso diminutivi o vezzeggiativi mentre mai si parlerebbe del cappellino o della giacchina di un uomo se non con intenti caricaturali. Grande responsabilità riveste infine la figura dell’insegnante nello sviluppare il senso critico delle nuove generazioni, e del giornalista, protagonista indiscusso del processo di mutamento del patrimonio linguistico, del suo arricchimento o, in alcuni casi, peggioramento. Non a caso, quando i mass media trattano un personaggio femminile, focalizzano l’attenzione sulla femminilità del soggetto anziché sul suo comportamento, positivo o negativo che sia, scatenando sentimenti di diffidenza, poiché occupa un particolare ruolo. Anche nelle interviste la formula prevede sempre domande personali, sulla famiglia, i figli, le relazioni, la difficoltà o meno di conciliare il lavoro con le esigenze familiari. Dopo diversi anni di lotte di emancipazione che hanno senza dubbio inciso sull’assetto sociale e politico, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono completamente adeguati ai cambiamenti avvenuti. La donna continua a essere la grande “esclusa” dalle pagine dedicate alla politica e all’economia, mentre comincia ad affermarsi in quelle dedicate alla cultura e allo sport; emerge con facilità invece nella copertina e nelle immagini pubblicitarie. Nelle riviste femminili spesso gestite da donne, non solo la donna è finalmente presente  ma anche il linguaggio utilizzato non è più patriarcale. Tra i molti cambiamenti linguistici avvenuti in questi anni, diversi sono derivati da una precisa azione socio-politica, l’abolizione ad es. di termini come spazzino, serva, giudeo, negro, è stata accettata e assorbita perché non si vuol essere considerati classisti o razzisti; allo stesso modo si dovrebbe giungere a evitare forme linguistiche discriminatorie per non essere tacciati di sessismo. Tutte le forme sopra suggerite sono anch’esse frutto di un’ideologia dichiarata, non più solo di diritti ma di valori laddove “parità” significhi legittimare la differenza e diventi possibilità concreta di sviluppo e realizzazione per tutti, pur nella diversità.

 Riferimenti Bibliografici

Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 1970
Raffaelle Fornaciari, Sintassi italiana dell’uso moderno, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1881
Giuseppe Gioachino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Ed. integrale, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1998, 2 voll.
Commissione Nazionale per la Parità e le pari opportunità tra uomo e donna, Il sessismo nella lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, con la collaborazione di Marcella Mariani, Edda Billi, Alda Santangelo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 1993, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
 
 
 

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