Vivere è un processo dialettico (tra resistenza e resilienza)

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Edvard Munch

Spesso il confine tra resistenza e resilienza rimane camuffato, nascosto dalla coltre fumosa dell’orgoglio. Una fitta muraglia di nebbia densissima che avvolge quel buffo pupazzo che, con arroganza, definiamo “io”.

Vivere è un processo dialettico che si muove disinvoltamente tra l’essere e il nulla, tra l’esserci e il dover esserci e, persino al di là di qualsiasi considerazione esistenzialista, questo processo rimane l’esperienza più coinvolgente fra quelle fruibili dagli esseri umani. La resistenza è, per definizione, la capacità di sopportare una situazione, una circostanza in cui si viene gettati nostro malgrado. È un vivido grido di opposizione, è un moto spasmodico di chi non intende piegarsi, non vuole appiattirsi. Si tratta, tuttavia, di una fase negativa antitetica, la cui caratteristica è data proprio da questo “dover” nuotare contro corrente.

La resilienza, invece, consiste nella capacità di reagire costruttivamente e operativamente in seguito all’interiorizzazione (e al superamento) di un trauma, di una difficoltà o di una contrarietà. Il processo in questo caso è volto alla sintesi omogenea ed equilibrata, al superamento di tutte le opposizioni e delle disarticolazioni.

Può, la quotidianità, far emergere la necessità di una convergenza tra questi due processi e, addirittura, giungere a renderli fasi alterne di un unico processo? A rigor di prassi, ancor più che di logica, direi di sì.

La società contemporanea, l’attuale scatolone sociale in cui siamo contenuti come mosche sotto vetro, ci impone schizofrenici balzi tra l’uno e l’altro impegno, con grave e conseguente disagio del precario equilibrio che dovrebbe caratterizzare la nostra persona. Il contesto lavorativo, le relazioni interpersonali, le dinamiche familiari, tutto si presta a questo costante conflitto, a questa guerra di trincea che ci contrappone tutti, continuamente. L’ansia è il collante che unisce i pezzetti di quel mosaico caleidoscopico che è il nostro modo di relazionarci, il nostro modo di essere, il nostro modo di stare al mondo. Personalmente, ritengo che negli ultimi tempi io mi sia alimentata ad ansia e che la tensione abbia caratterizzato il filo rosso della mia quotidianità. Una condizione di precarietà che si riverbera su ogni singolo aspetto della vita: dal lavoro, alla famiglia, alle amicizie, passando ovviamente attraverso le relazioni più intime. In questi ultimi, lunghissimi mesi ho alternato resistenza e resilienza con la stessa frequenza con cui ci si cambia i vestiti. Ho subito torti, parato colpi bassi, ascoltato patetiche lezioncine di vita offerte da gente che deve ancora perdere i denti da latte, sopportato giudizi crudeli e codardi, assorbito auguri tra i più malvagi. Ho pianto in silenzio, ho sofferto da sola, sono caduta sbucciandomi le ginocchia. Ho sorriso scioccamente, ho scrollato le spalle, mi sono rialzata ignorando i rivoli di sangue. Mi sono offerta alla resistenza come una guerrigliera e ho risposto degnamente a tanti indegni attacchi. Mi sono guadagnata la resilienza riconoscendo la vacuità degli avversari, reimpossessandomi della mia vita, del mio diritto a vivere, a sbagliare e a correggermi. Ho fatto di quei rivoli di sangue il mantello cremisi di una spartana.

Il processo diviene pertanto uno solo, sebbene a fasi alterne. Il conflitto che contrappone tesi e antitesi, unità e molteplicità, si acquieta nella pacificazione della risoluzione di se stesso e nel riconoscimento del senso della lotta nella sua prassi, nel suo procedere, al di là del bene e del male, verso la vittoria della sopravvivenza.

“Esistere è OSARE gettarsi nel mondo”, Simone De Beauvoir.

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