Wunderkammer, “fuoco sacro della meraviglia” e “panorami senz’aria” di Carlo Tosetti

“Quando s’ingabbiavano/ i grilli all’Ascensione,/ gioivano i bambini/ e frinivano gli insetti/ rabbuiati e bellicosi./ Per taluni sedotti/ dalla moda dei cinesi,/ a porco e stille d’acqua/ si allevava un gladiatore;/ i più, predestinati a compagnia,/ quel dì solo, dei mocciosi,/ fatui si spengevano/ d’inedia e d’afflizioni.”. Tratta da “Wunderkammer”, s’intitola “La festa dell’ascensione” la poesia scelta per introdurre l’intervista al poeta Carlo Tosetti.

Qual è l’incarico (odierno) della poesia?
Penso che diverse siano le risposte alla domanda, in funzione di un insieme di fattori che attengono all’interiorità (nondimeno alla cultura, in senso qualitativo e non “ponderale”) del poeta. Mi sono già espresso pubblicamente, criticando l’attuale tentativo d’impastoiare la poesia, investendola ufficialmente d’una funzione di esorcismo sociale, cioè l’indirizzare lo sguardo dei poeti in modo preminente verso la realtà, o meglio verso i problemi del reale, nel tentativo di liberare gli animi “fascinati”, che sempre più – al di là di posizioni politiche – sono presenti nella nostra società incivile. Pur consapevole della forza rivoluzionaria delle lettere, conscio che i nostri tempi richiedano un rivolgimento totale delle prospettive, volendo tuttavia difendere le sconfinate possibilità della poesia e dell’arte in generale, credo che la poesia debba alimentare la bellezza, libera da ogni vincolo tematico e da velleità d’ogni sorta, se non – appunto – mantenere vivo il fuoco sacro della meraviglia. In questo alveo è collocabile ogni tematica, sociale e non, ma senza dimenticare che la bellezza si oppone in sé, per sua natura, all’involuzione sociale. Come ci mostra la storia i cantori della bellezza possono affascinare, distrarre, indicare la via. Sono sempre pericolosi.

La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
Credo necessiti più di ascoltare. Le grandi opere di poesia sono frutto di sudore, ma prima ancora di ascolto. Ascolto del mondo, di un’idea, ascolto della propria intima coscienza e voce. Cioè: è l’ascolto che produce la poesia; senza l’ascolto non potrebbe esistere l’arte.

Per Joë Bousquet la poesia è “l’accoglienza che l’uomo riserva alla vita”, per Tosetti?
La poesia è un metodo di ricerca, con andamento centrifugo. Non vorrei apparire anacronisticamente ermetico (non nell’accezione poetica, ma filosofica), tuttavia al sottoscritto appare evidente come le medesime leggi sottendano il micro ed il macro, se non altro in alcuni modelli logici-chiave. Lo scavare in sé nell’atto poetico, la ricerca del verso e del suono, del vocabolo (che talvolta conduce ad un risultato differente da quello cercato) contiene un messaggio; potremmo dire una intuizione. Tornando a posare i piedi per terra, il ragionare intorno a un tema, motore di volontà che produce il verso, indirizza verso la comprensione profonda della realtà, prima interiore, poi esteriore… O viceversa.
Banalmente vorrei ricordare le diffuse espressioni di rivelazione, spesso associate alla lettura di una poesia “illuminante”; un verso riuscito ha il dono della sintesi, è un’immagine che ne racchiude di molteplici, siano esse riferite a stati d’animo o a interpretazioni, decrittazioni, della realtà interiore ed esteriore.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Oggi nella categoria “poesia” si comprendono – a torto o a ragione – una serie infinita di stili e composizioni. Ad un polo troviamo la poesia che guarda alla metrica, agli antipodi forse è piantato il vessillo della poesia in prosa (o come si voglia chiamare questo genere).
Nel lungo tragitto fra i due poli si incontrano infinite sfumature del verso e credo che per ognuna siano differenti i requisiti, per sancire la compiutezza di un testo. Nel mio caso, per come amo scrivere e leggere, ritengo sia la fluidità, la musicalità. Questo è un tentativo rozzamente scientifico di analisi: credo sia impossibile rispondere comprendendo anche la soggettiva del poeta, quindi nel rispondere considero unicamente lo stile del verso, che soggiace a delle regole, anche quando non sono evidenti (cioè sono inerenti allo stile personale).

La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
Questa domanda mi mette in difficoltà, perché ispirerebbe un particolareggiato trattato sulla forma e, anche se disponessi dello spazio necessario, non ritengo di avere la preparazione per affrontare un argomento così vasto; non sono un critico. Come ho risposto sopra, oggi il termine “forma” si declina in infinite fogge, che – ai fini di un approccio critico, analitico – andrebbero guardate unicamente per ciò che sono, cioè per come si presenta un testo, affrancandoci quindi dal gusto personale. Mi sento quindi autorizzato ad esprimere un parere senza distogliere lo sguardo dalla mia poesia, la quale credo sia fortemente contrassegnata da un lavoro di lima, lavoro definito “a togliere” e mirato al perseguire una mia precisa forma. Nel mio caso, quindi, l’essenzialità è prodotto diretto della forma. Non mi pare che tutte le moderne, totalmente svincolate dal canone classico o “classicheggiante”, pongano l’essenzialità quale ingrediente fondamentale della poesia. La poesia, come già affermato, è sintesi per definizione, ma le innumerate fronde della forma ne determinano altrettanti “gradi”. In sintesi, potremmo affermare che l’essenzialità è una possibile via.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Questa domanda, posta al sottoscritto, non può che avere come risposta un secco “no”. Le maggiori critiche alla mia poesia riguardano proprio il linguaggio, da alcuni considerato manieristico e autoreferenziale, quindi – di fatto – superfluo e non contemporaneo. Dal mio punto di vista la scelta di utilizzare una lingua ricca di vocaboli ormai desueti e, si, che odorano di passato, è obbligatoria e finalizzata alla ricerca di un suono preciso, armonioso, che la lingua moderna a mio avviso non può dare. Inoltre, alcuni vocaboli caduti in disuso non hanno un corrispondente attuale e questo aspetto ha il suo peso anche nella conta sillabica. Prendiamo, ad esempio, il verbo “aduggiare”, che troverete in una delle poesie che vi propongo: l’imponente faggio del mio giardino, con la sua ombra, ostacola la crescita dell’erba, la danneggia. Posso dire, in una sola parola, che il faggio aduggia e, inoltre, starei attingendo da un campionario di suoni differenti da quelli utilizzati dalla lingua contemporanea. Io amo le sonorità della lingua della fine del 1800, fino alla prima metà del 1900. Non ho velleità educative, non mi competono, ma credo che non sia scandaloso impugnare un vocabolario ai fini di una lettura. Torniamo ad un discorso già accennato: io tento di scrivere, prima di tutto, una poesia musicale. A prescindere dai temi affrontati, il mio senso estetico mi spinge in questi territori sonori. In ultimo: chi ha stabilito che il significato di una poesia debba essere compreso, o compreso del tutto?
Dipende da ciò che cerca un lettore, da ciò che è in grado di vedere. Ho notato, infatti, che molti pittori non si domandano quale sia il senso delle mie poesie; evidentemente sono paghi delle immagini trasmesse dalle parole. Questo è un aspetto che mi sta particolarmente a cuore e sul quale manifesto una certa intransigenza. Considerare una poesia per il solo significato letterale è una gravissima mutilazione dell’arte e denota un sempre crescente impoverimento artistico della nostra cultura. I confini dell’immaginazione si stanno costantemente ritirando e ciò si manifesta anche nell’omologazione della poesia.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi non dovremmo mai dimenticare?
I classici: Dante, Ariosto, Petrarca e poi Borges e Montale. Sono punti di vista, naturalmente: io sono legato ad una concezione classica della poesia e ritengo che questa debba distinguersi nettamente dalla prosa, per mezzo di un insieme di regole. Queste regole possono (e forse devono) essere violate in tempi moderni, ma ciò non significa dimenticare. L’attenzione verso una certa regolarità isosillabica conferisce ritmo e musicalità ad una composizione, regolando inoltre la lunghezza del verso.
Questa precisazione potrebbe sembrare ovvia, ma si legge molta poesia i cui “a capo” risultano quasi fastidiosi, addirittura frammentando la spinta ritmica, donando quindi un risultato contrario alla poesia. Non disdegno (e uso) il verso libero, ma senza mai perdere di vista dei vincoli nei suoni (quindi negli accenti). Lo ripeto, però, sono punti di vista, che hanno a che vedere col proprio senso estetico. Non intendo con questo affossare altre direzioni della poesia e non mi limito alle letture dei classici che ho indicato. Uno dei libri che ho più apprezzato degli ultimi tempi è “I labili confini” di Stefano Bortolussi, edito da Interno Poesia. È un poema in verso libero, che sconfina nella prosa, ma mantenendo una struttura in ottave. Il risultato è originale, nuovo e di grande effetto e ritengo sia di grande effetto anche il fatto che questo libro non abbia avuto importanti riconoscimenti. Io continuo a consigliarlo. La verità (mi permetto di sconfinare nella presunzione) è che vengono sponsorizzati, premiati e letti libri molto simili, seppur diversi. Libri che hanno un denominatore comune: sono semplici, immediati, nella forma e nel linguaggio. Tornando alle mie “indicazioni”: Borges ha scritto composizioni di grande suggestione, alcune delle quali tuttavia possono non essere considerate a tutti gli effetti “poesia”, ma la sua estrazione classica pervade i temi ed il linguaggio, restituendo immagini di folgorante calore e bellezza. Infine, Montale: lo considero il miglior esempio di ponte fra classico e moderno.

Pensando al tuo più recente libro ti chiedo: com’è nata l’esigenza (il ‘dettato’) di questa raccolta?
La raccolta è nata per caso, dietro insistenza del mio caro amico Marco Bertoli (traduttore e letterato milanese, personaggio coltissimo e umbratile, lontano dalla ribalta) il quale ha insistito affinché tentassi la pubblicazione dopo 10 anni di silenzio (la precedente raccolta, Mus Norvegicus, risale al 2004). Le poesie incluse in Wunderkammer (Pietre Vive, 2016), scritte nell’arco di 2-3 anni, hanno però una linea ben precisa: fluidità e musicalità del testo. Non saprei che rispondere, riguardo all’esigenza, se non che la stessa è scrivere.
Non avevo quale progetto la pubblicazione. Alcune poesie erano disponibili nel mio blog, altre relegate in scartoffie private. Ho sempre e solo scritto per bisogno mio, per soddisfare me, per liberarmi di idee e pensieri ricorrenti e la forma espressiva maturata negli anni è la poesia. Gli scritti della raccolta, seppur toccando temi diversi fra loro, hanno il comune risultato di restituire l’isolamento – rispetto all’ambiente – dell’oggetto della mia osservazione, sia esso un ricordo, un ente naturale, un fatto accaduto. La struttura del libro, intuizione dell’editore (Antonio Lillo), ricalca il titolo: la Wunderkammer. Il raggruppare in sezioni coerenti le poesie ha accresciuto il senso di cristallizzazione e di distacco delle poesie-oggetti da tutto ciò che circonda i componimenti. A libro stampato mi sono trovato di fronte ad un’opera inaspettata; credo vada affrontata come un rapido viaggio in luoghi “altri”, dove per “altri” intendo anche non esistenti o puramente concettuali. L’amico Marco Bertoli, sopra citato, definì il libro zeppo di “panorami senz’aria” e trovo sia una perfetta descrizione.

A quella in apertura, ti chiediamo, per salutare i nostri lettori, di aggiungere altre due poesie dal tuo libro.

 

 

 

NORD

Nei microcosmi di pianura,
aduggiati dal Nord,
ramificano i muschi
e si pasce l’onisco;
sono essi piccoli
mondi sormontati
da immani muri
sbiancati vanamente,
madidi e gibbosi,
poiché il sole
lambisce l’oscuro
e percorre altre sue rette.

SAN PIETROBURGO

Lungo la gravida Neva,
ne vedemmo di bolsi
ubriachi e di cani
mulinare inghiottiti,
poi sputati zuppi e guasti
nella pozza del Marchese.
Noi ci si calava tosto
sulla riva, litigandoci
un panciotto od altri effetti,
e noi pure ad affogare
s’andava in bettole
scorgendo mesti accorrere
una vedova babushka.

Carlo Tosetti (Milano, 1969), vive a Brivio (LC). Ha pubblicato le raccolte: Le stelle intorno ad Halley (LibroItaliano, 2000), Mus Norvegicus (Aletti, 2004), Wunderkammer (Pietre Vive, 2016). Suoi scritti e recensioni sono presenti nei seguenti siti/riviste: Nazione Indiana, Poetarum Silva, Larosainpiu, Paroledichina, Words Social Forum, Versante Ripido, elvioceci.net, Il Convivio, Lankenauta, Interno Poesia, www.giovannicecchinato.it, Poesiaultracontemporanea; Atelier; MentiSommerse, Tragicoalverman, Yawp (giornale di letture filosofiche), l’EtroVerso, Pangea. È stato ospite delle trasmissioni: Percorsi PerVersi, in onda sulle frequenze di Radio Popolare, il 30/01/2017. Teatro Bla Bla, in onda sulle frequenze di Radio Bla Bla, il 7/5/2018.
Collabora con Poetarum Silva. Blog personale: musnorvegicus.it

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