Come si va all’altro mondo? Passando in una vecchia fornace, rovesciando una montagna, camminando su una soglia. Oppure sopportando la fatica di crescere (Endure that toil of growing up), parafrasando William Butler Yeats, quando crescere è la via fra la memoria e la dimenticanza.

Nella dimenticanza si sostituisce l’ascolto alla voce.

Mi chiedo spesso cosa sia questo altro mondo.
Uno spazio che ristabilisce le regole del tempo. Una landa delle più inquiete storie di fate, per cui avventurandosi in un qualche luogo che vira al selvatico, si esce dal tempo conosciuto e quanto può apparire un giorno nella terra fatata, diviene un anno dove eravamo umani ignari. Si va verso questo spazio per curiosità. Per amore. Per amore infine ci voltiamo indietro, anche se non sappiamo chi troveremo e i nostri destinatari elettivi potrebbero essersi dissolti, polverizzati. Perché in realtà il nome del destinatario ci è ignoto. Se l’altro mondo è lo spazio dove le cose accadono, la poesia è il limitare da cui vengono viste.

Penso alla Ballata del Vecchio Marinaio di S.T. Coleridge, dove il marinaio che riemerge dall’altro mondo (l’emisfero australe, l’oceano, la visitazione degli spettri) ne porta i segni e non può che fermare altri sulla soglia per evocare il suo viaggio. La moneta per l’altro mondo è, nel suo caso, il male senza perché. Una violenza che rompe la fratellanza. Soltanto ristabilendola tramite il bene senza perché, il marinaio potrà liberarsi, a prezzo di portare l’altro mondo nella sua persona.

Su quel confine la mia lingua poetica tenta dunque questi tre atti per un attraversamento (una fuga, un ritorno):

ricordo dei sogni
evocazione di animali
conoscenza dei legami fraterni.

Questi sono anche i tre atti che mi porto dietro dalla prima infanzia, quando non scrivevo poesie, ma avevo chiara l’importanza dei miei viaggi onirici, la presenza dei compagni animali di tutte le dimensioni, dai maggiolini alle manticore, il desiderio di un fratello.

In questo autocommento vorrei affrontarli concentrandomi su alcuni testi tratti dalla sezione voci, di Libro di Hor (Vydia 2019), composto insieme all’artista Ginevra Ballati.

Ginevra Ballati, “generosità”.

La sezione si compone di undici poesie e altrettante immagini in un rapporto aperto. Undici è un numero magico, associato alle fate. Palindromo, dispari e iniziatico: si entra nel vivo dei numeri a due cifre, si mette piede nella dimensione altra. Undici sono le poesie della sezione conclusiva e omonima del mio libro precedente, Acquabuia (Aragno 2014). Le parole si muovono fra le due sezioni in un gioco di rimandi. Ogni libro è un nuovo cerchio nell’acqua, ma tutti i cerchi provengono dal medesimo ciottolo scagliato. Tra un testo e l’altro si forma dunque una mappa di vie percorribili.

Gli undici testi di acquabuia possono essere letti come un dialogo frammentario fra una sorella e un fratello che di volta in volta si sottraggono l’uno all’altro, si amano, ricrescono fra l’erba o sui tetti di una periferia londinese, quella dove abitavo mentre venivo scrivendoli. Si fanno animali, si riconoscono reciprocamente strani e familiari. Vengono lasciati andare. Quello che accade in voci ha una struttura più compattamente narrativa. Non ricucio versi, ma raccolgo. Raccolgo il detrito di una montagna che c’era o che deve ancora sorgere. È una montagna intravista molte volte nei sogni – è fatta di roccia e di alberi che procedono al contrario, dentro la terra. Potrei dire come Marina Cvetaeva scriveva a Rilke, che anche io “Credo nelle montagne”. Credo nell’osservarle, nell’indugiare fra le loro pietraie e boscaglie. Credo nelle cave che contengono. Una montagna è terra che ascende – fatica, liberazione. Una montagna nasconde la valle oltre di lei. Una montagna è terra che spinge il passo di chi ama verso un appuntamento clandestino, fuggevole, sacro: Trasalirai – ti scrollerai montagne,/ e l’anima – ascenderà.
Dicono i primi versi del Poema della Montagna della Cvetaeva, nella traduzione di Paola Ferretti.

La cima della mia montagna è semplice: un pezzo di cielo fra i rami di nocciolo dietro una chiesa dove sostare la sera, prima di rientrare a casa, un’estate. Qui si manifestano tre creature, tre portavoce, che abitano pelli umane, piume, pellicce. Ibridi. Orso (anzi orsa), Corvo, Volpe.

Morte. Magia. Memoria. (Sibilla)

Si radunano da mondi distanti. L’orso che ha popolato questi monti. La volpe che tanto spesso indovino o incontro. Il corvo cittadino dei parchi di Londra, come quello maestoso, cialtrone, incantato dei miti amerindi. Chiedono di essere visti mentre dicono una storia che forse avverrà o è già avvenuta: un presagio, un dolore, una riunione con quanto va perduto. Indicano altri animali per i quali ho attinto da incontri quotidiani, come nel caso di un frustone, all’alba, o di una folaga morta nel ghiaccio, e dall’arte, dove tracciano la prima e ultima frontiera della nostra immaginazione. La nostra immaginazione è il potere di disumanarci. E così renderci prossimi. Imparare un alfabeto minimo di uguaglianza e attesa. Pensavo, fra le altre cose, alla Caverna dei sogni dimenticati, del documentario di Werner Herzog sulla grotta di Chauvet, in Francia, da cui ho mutuato alcune bestie

In una cavità filtrano i sogni.
Orsi, cavalli, tori, una leonessa
soffio di flauto d’osso d’avvoltoio (Landa rocciosa)

per farle uscire dai mattoni della ciminiera ai piedi della montagna, che segna il mio orizzonte fin dai miei primi anni. Un rudere, una torre di misteri. Fra di loro, fra i mostri di un’infanzia e gli animali del sogno, cerco il parente disperso, quel fratello che mostra una verità: la morte toglie l’opaco dalla vita, la fa brillare in trasparenza.

Generosità

Mio fratello resta nel paesaggio
ma la terra muta dentro di lui, si avvicina.

Vedo nel suo volto una collina
di erba gatta e felci
dove scavano gli occhi.

Porto il suo corpo in un mantello.
Sotto nasce il passato.

Quando divide la mia anima
essa si fa intera, vive sola
in molti animali.

La incidono sui bordi come argilla.

Io non posso contenere il dolore, lei
si spande senza nome
in zolle di malva o spiga.

È gracile, si toglie la maschera
l’impronta delle dita.

Vorrebbe sempre salire al cielo.

Mio fratello è qualcun altro, non necessariamente umano, ed è sempre se stesso. Nell’immagine di Ginevra è una creatura in divenire con una maschera sotto cui elude ogni interpretazione. Facendo un salto indietro è il fratello che

flette le orecchie
sul pelo

nella poesia “I fiori” in acquabuia; è il fratello a cui chiedo

Chiamami sempre sorella
nel ciglio d’erba

in “Questo è il tuo cuore” della medesima raccolta. Non è colui che si trova, ma colui a cui ci si arrende. Colui di cui la terra mormora, porta una memoria che lenisce e fa cadere il superfluo nell’oblio. È il fratello per cui la poesia si mette in viaggio. Per cui accetta sconfitta e umiliazione. Per cui si fa feroce e si attacca al terreno, imparando a mutare. Mutano gli alberi perfino. Dai castagni agli ontani scuri del torrente presso cui abito, gli alberi camminano come in un mito gallese: non per andare alla guerra, ma per crescere in un altro scenario. Le loro intelligenze antiche migrano l’una nell’altra. Sopravvivenza, adattamento, monito per la nostra piccolezza.

La trasmutazione degli alberi

Ero la casa grigia, l’antenato, l’Appennino.
Castagno chino alle stagioni
pelle primitiva, corteccia, spina
che penetra e resiste nelle guerre.
Ero la te bambina, dietro il campo dei morti.
La foglia sulla testa o nel paniere –
secolare e lenta la mia tribù parlava
sollevava le radici quasi a cingerti, solitaria.

Un giorno mi sono incamminato –
era il tempo dell’albero sognato
quando l’albero dettava le mappe agli animali.
Sono sceso a valle, perché vivere
è trasmutare, trovare l’altro
sull’argine del fiume. Difendere.

Il mio tronco dall’acqua fluisce
scurisce di rami e di schiume.
Dentro me hanno piume la pietra
o l’onda nero-argento della trota.
Non temere se il posto è sconosciuto
come ogni cosa viva torna bosco.
Le prede. Le ceneri. Le strade. E tu.
Sanguina dalla corteccia, seccati
nel terreno, applica
sulle ferite un estratto d’ontano.

Quando gli occhi si stregano impara
a sapere la riva con la mano.

Si rovescia la prospettiva: non siamo in cammino nel mondo, ma il mondo cammina in noi, è un ritmo azzardato, talvolta fallimentare, talvolta commovente, che ci tiene. È l’altro sull’argine (ancora il fratello) che cammina per dirci che è sempre stato qui. Queste sono cose che arrivano da lutti e attraversamenti. Ma anche dalla gioia. Una gioia tenace che rimane quando gli animali scompaiono nella montagna, quando sono stati dimenticati e con loro si è dimenticato il nostro stesso corpo. Rimane come una macchia di lamponi. Rimane come un osso schiarito, una pietra di mondo nuovo.

Nella montagna appaiono gli animali
negli animali l’infanzia traspare.

Il lupo fugge dalla pietra, raspa nei corpi
graffia la legna, ulula, ringhia

finché le voci alimentano torce.
Voci di pietre di ossi.

E sopra gli ossi l’infanzia sorge. (La Montagna)

Quando accettiamo il passo della fine o la sua torcia consumata, il cielo si apre sulla valle, e dalla valle si vede la riva di un mare scostante, altero. Chiede di tuffarsi e infine dimenticare.

Oltre la valle c’è il mare, grigio
come una lastra
e fra le lastre la pelle dell’animale. (Selkie)

Come in un rito di commiato la pelle porta i nostri morti. I nostri morti sono vivi di là. Siamo loro ospiti nello spazio della consapevolezza. Di là perdiamo la parola, ma non il corpo. Di là ci accoglie un estraneo, si lascia violare, uccidere, scuoiare.

Lei è tutti coloro che amiamo (Selkie)

La indossiamo per resistere al freddo tagliente dell’acqua, torniamo a galla. Sentiamo che è giusto e atroce. Non siamo più noi stessi, non lo siamo mai stati.
La poesia guarda, avviene spaesandoci e ci abbraccia. Comincia.

nota bio-bibliografica

Francesca Matteoni (Pistoia, 1975) conduce laboratori di tarocchi e poesia, e insegna storia presso università americane di Firenze. Abita alle pendici dell’Appennino. Ha pubblicato vari libri di poesia, fra cui Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014) e il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014). Ha curato libri collettivi ispirati al fiabesco e ha all’attivo pubblicazioni accademiche, tra cui: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). Insieme ad Azzurra D’Agostino ha curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto in Sardegna. I suoi ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019) e il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019)

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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