Ogni volta che sento la parola Sanremo – ogni singola volta – mi viene di rievocare un verso dantesco che compare nel canto XXI dell’Inferno, e che quasi nessuno ricorda (ma che prontamente mi premuro io a ricordare):
“Ed elli avea del cul fatto trombetta”, v. 139.
Poi, in mezzo a quella masnada di burbanzosi e orbati di vera virtù, caduti nel vizio più noioso e banale, ce ne fosse uno in grado di esprimere un pensiero – un solo pensiero, una sola critica capace di ridestare nella moltitudine delle menti ottenebrate un baluginio di speranza!
Il compito di questi è seminare il vizio, l’accidia, il non fare un cazzo, la vanità che trionfa nel richiamo propagandistico massmediatico zelenskyano, prontamente invitato – probabilmente apposta – all’evento, come se non se ne avesse abbastanza della noia.
Chissà quando inizieranno a studiare, a coltivare, ad essere meno gretti, come vorrebbe il Vate nostro sommo quando nel verso scintillante e famoso ammoniva: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute et canoscenza”.
(in copertina Il Ritratto di Dante del Bronzino)