«Cortigiani, vil razza dannata, / per qual prezzo vendeste il mio bene? / A voi nulla per l’oro sconviene, / ma mia figlia è impagabil tesor». Se il nostro “bene” – e, idealmente, nostra “figlia” – è la Verità, possiamo dire che i cortigiani del nostro Paese non ci abbiano messo troppo a vendersela. Eppure di questo “impagabil tesor” siamo stati noi stessi a disfarci, senza quasi rendercene conto, e, al contrario di Rigoletto, non prorompiamo contro la “razza dannata” perché ce lo restituisca. Ma chi sono questi cortigiani? Ne parlavo tempo fa con un’amica, Adriana Merola, che oltre ad esercitare l’attività forense può vantare un talento d’artista e un passato da editrice (col marchio di Azimut ha diffuso opere notevoli della letteratura contemporanea). Lei mi chiedeva: «Che ne è dell’intellettuale? Ora più che mai è chiamato a dire la sua e invece sta zitto». Ma gli intellettuali italiani sono storicamente dei cortigiani, le rispondevo, senza dare al termine un’accezione puramente negativa. Basti pensare a Virgilio, che ammannì una sua ricostruzione storica – tra mito e realtà – della fondazione di Roma e della progenie di Enea, di cui l’imperatore Augusto, suo “protettore”, era visto come il glorioso discendente. Andando avanti nei secoli troviamo Petrarca che, tra epistole in latino e versi in volgare (i suoi mirabili fragmenta), fu ben attento a dimostrarsi riconoscente alla famiglia dei Colonna, da cui era “protetto”. D’altronde era l’unico modo che un intellettuale aveva per dedicarsi interamente alla propria opera senza preoccuparsi delle necessità materiali, e, paradossalmente, per essere indipendente, almeno dall’ingerenza di poteri meno liberali (la Chiesa in primis, che costrinse Galileo a rimangiarsi le sue teorie tanto da provocargli un’indigestione copernicana). Era una questione di vanto per lo stesso Signore circondarsi delle migliori menti del suo tempo (pensiamo alla corte siciliana di Federico II).

     Le epoche cambiano ma i costumi, soprattutto nel nostro Paese, tardano a mutare (di solito finiscono per incancrenirsi). Lo sviluppo della stampa e la massiccia produzione giornalistica, uniti a un progressivo – seppur lento – aumento dell’alfabetizzazione, avrebbero dovuto portare a una diffusione più incisiva e incalzante della cultura, a una presa di coscienza che affrancasse gli autori e i lettori dal bisogno di un padrone. Ma forse è meglio limitarsi a scriverci sopra… Leopardi si accorse con avvedutezza come il benessere prospettato dal progresso scientifico, meccanico e tecnologico fosse qualcosa di effimero, e sapeva che gli uomini se ne sarebbero fatti abbagliare. In quel capolavoro di retorica che è la Palinodia al Marchese Gino Capponi, il giovane recanatese abiura ironicamente alla sua visione “pessimistica” (sarebbe meglio dire “realistica”…?) della vita e dell’avvenire: «Aureo secolo omai volgono, o Gino, / I fusi delle Parche. Ogni giornale, / Gener vario di lingue e di colonne, / Da tutti i lidi lo promette al mondo / Concordemente. Universale amore, / ferrate vie, moltiplici commerci, / vapor, tipi e choléra i più divisi / Popoli e climi stringeranno insieme». Perfino la diffusione del colera (non a caso scritto in francese, poiché riferito all’epidemia scoppiata oltralpe nel 1832 e arrivata in Italia nel 1836) è frutto della globalizzazione, potendo il morbo viaggiare con la facilità dovuta ai “moltiplici commerci” ed ai “vapor” (cfr. Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Giuseppe e Domenico De Robertis, Mondadori, 1987). Ma questo “universale amore”…? Forse è quello scaturito dalle gioie effimere con cui il consumismo affratella i popoli. Se l’ideale del bene individuale è difficile da raggiungere, meglio crearne uno collettivo (poco importa se posticcio): «… che, non potendo / Felice in terra far persona alcuna, / L’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comune felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / Tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice: e tal portento… / … il civil gregge ammira» (cfr. G. Leopardi, Canti, cit.). Leopardi però era un nobile, si potrebbe obiettare, e dall’alto della sua agiatezza poteva pontificare senza tema di inimicarsi il potere del suo tempo. Eppure, se ci spostiamo dal macrocosmo della società al microcosmo della famiglia, possiamo riconoscere l’estenuante lotta ch’egli affrontò per slegarsi da chi, assicurandogli il “benessere”, gli negava la libertà.

     Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, col radicamento di un sempre più forte impegno civile e politico, pur nello scarno panorama della consapevolezza nazionale, fiorirono giornali e riviste indipendenti con l’intenzione di denunciare il declino sociale del Paese e la mancata realizzazione di quel Risorgimento che sembrava dovesse assestare ancora il colpo di grazia agli Austroungarici (il Piave avrebbe presto mormorato…). Gli intellettuali trovavano una sicura protezione sotto l’ala dei partiti politici, fin quando si ponevano al servizio della loro propaganda. Non scordiamo che due grandi pensatori – nonché penne finissime – come Gramsci e Silone, prima di esser messi a tacere dal regime fascista, vennero sconfessati dai loro stessi compagni poiché considerati “dissidenti”. D’altronde era la prassi del Partito Comunista italiano che di lì a poco sarebbe diventato un satellite di quello sovietico (dall’impero zarista al regime stalinista il passo fu breve e la differenza minima) che ai personaggi scomodi non riservava il clima temperato di Ponza o di Lipari, come accadeva ai confinati nostrani, ma il gelo implacabile della Siberia. Proprio in una delle interminabili file di persone che, fuori dalle carceri di Leningrado, attendevano notizie dei familiari spariti da un giorno all’altro (talvolta uccisi senza neanche un processo) e ad essi portavano abiti buoni e vettovaglie, si ritrovò la poetessa Anna Achmatova, il cui figlio era incarcerato. Una volta, come raccontato nella prefazione al suo Requiem, qualcuno la riconobbe: «Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma questo lei può descriverlo? – E io dissi: – Posso. – Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto» (cfr. Anna Achmatova, La corsa del tempo. Liriche e poemi, a cura di Michele Colucci, Einaudi, 1992). Al poeta, allo scrittore, all’intellettuale spetta dunque l’onere di farsi cronista delle atrocità del suo tempo; sono le vittime come lui – ma vittime senza voce – a chiederglielo, affinché l’ingiustizia non sfugga al giudizio della memoria.

      Ed oggi che ne è dell’intellettuale, come l’amica Adriana mi chiede? Concentriamoci un attimo sui lettori o sui fruitori di conoscenza. Da oltre un decennio l’invasione tecnologica consente un accesso facilitato alla produzione culturale e soprattutto a quella giornalistica, riducendo al minimo le distanze tra i Paesi. Ogni casa editrice o giornale che si rispetti possiede un proprio sito internet dove veicola o almeno promuove quanto sulla carta riesce a passare con sempre maggior difficoltà. E i fruitori? Loro vogliono esser aggiornati su tutto senza però informarsi di nulla… La notizia deve muoversi di bocca in bocca; poco importa l’autorevolezza della fonte, poco importa se dietro al titolo sensazionalistico di un articolo manchi un pensiero o un’informazione corretta. Abbiamo bisogno di una notizia che faccia notizia! La questione che sta a monte passa dunque in secondo piano, e chi pure volesse approfondirla viene messo nelle condizioni di perdersi in un gergo studiato per nascondere e non per chiarire. La cortigianeria continua: i grandi gruppi editoriali sono legati strettamente alla finanza e agli interessi politici, e poco spazio trova una corretta analisi della realtà; ciò che sfugge alla verità ufficiale viene immediatamente tacciato di “complottismo” o di “fake news” (penso a Marinetti che per l’Italia voleva, forse non a torto, un’autarchia linguistica). Durante la chiusura (in ossequio al padre del Futurismo non uso il termine “lockdown”) della scorsa primavera, la televisione pubblica ha istituito addirittura un Osservatorio Permanente, col compito di stabilire quali notizie sulla pandemia fossero scientificamente corrette e di evitare quelle che potessero minare la “coesione sociale” (roba da MinCulPop!). Questo viene dall’azienda televisiva che sin dall’inizio della pandemia ha dato voce a cani e… virologi, creando un bombardamento mediatico che ha portato unicamente a una reazione ansiogena dei telespettatori. Qualcuno ha sussultato di fronte a un tale arbitrio? Quasi nessuno, direi. Ormai all’intellettuale non solo manca il coraggio delle proprie idee ma anche la forza di partorirle, abortite come sono da una mente refrattaria ad ogni impulso di conoscenza.

     All’uomo di pensiero non si chiede altro che di essere presente al suo tempo e di schiudere le finestre alle voci che invocano risposte e alle orecchie che faticano a sentirle. Quando quell’inguaribile ottimista di Candido si trova per la prima volta a confronto con la realtà (quella estrema della guerra), Voltaire descrive così la sua reazione: «tremava come un filosofo». Smettiamola dunque di stare nascosti e sgranchiamoci la mente anchilosata dai libri e dai compromessi, perché se un po’ di “scienza” ci è rimasta in vita è proprio in questo momento storico, così confuso e desolante, che essa va seminata, con la pazienza e la caparbietà di chi crede nei raccolti del domani.

  

Magritte, L’arte della conversazione, 1963.

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