Maurizio Gregorini con “Sigillo di spine” testimonia come il sacro è la profondità del profano.

Dev’essere esaltante per Maurizio Gregorini aver raccolto a un’età tuttora giovane tutta la sua produzione in versi risalente al 1986, insieme a vari testi inediti. Sigillo di spine (Castelvecchi, 2017) è quindi la sua opera omnia, ovviamente fino a questo momento. Fin dal primo titolo, che è Vuoti di colore, ma poi anche in Serpe confusa e attraversando l’intero percorso il tema che si nota evidentissimo è il rapporto col sacro, vissuto però in una forma non confessionale, non religiosa nel senso limitato del termine, perché altro è la religione e altro è vivere una dimensione spirituale che deve essere a sua volta messa in relazione col profano.
Sigillo di spine testimonia proprio come il sacro è la profondità del profano: andando fino in fondo a quest’ultimo si incontra il sacro. Del resto la parola latina sacrum indica – certo nell’ambito del paganesimo, tuttavia ancora latente nelle culture successive – l’ambivalenza sia del bene che del male, per cui è sacrum tanto il benedetto e venerabile quanto l’esecrabile e infame. Non si può non pensare a Heidegger, nell’epoca che noi viviamo da molto tempo della morte di Dio, ossia della desacralizzazione dell’Occidente, quando gli dèi, quelli della poesia antica dove la sacralità era indiscussa, sono fuggiti, lasciando una traccia che il filosofo tedesco riconosce in Hölderlin e in Rilke. È una traccia che è molto difficile, soprattutto oggi, percepire e si lascia a malapena intravedere, ma c’è anche un reale ottimismo in questo discorso in quanto non è ancora forse del tutto scomparsa una traccia della traccia divina. In Sigillo di spine la intuiamo, e inseguendola c’è inesorabile ancora un arrischiarsi, il rischio insito nello stesso fare poetico, e qui in particolare è il rischio di seguire la profondità del profano e associarla alla divinità del divino.
L’ispirazione di Maurizio Gregorini è fortemente mistica, una mistica che non prescinde affatto dal corpo. La corporeità è tutta quanta coinvolta nell’estasi. Perciò parliamo di amore o amori nei quali c’è la mediazione della dialettica che abbiamo prima evidenziato. Questo vuol dire che l’amore è elaborato in Sigillo di spine in modo raffinato e complesso, senza essere una storia, o più storie, d’amore intesa o intese nei modi consueti. Pensiamo a Discriminazioni (precedentemente con una prefazione di Elio Pecora): “Ti sbagli Flavio: / con te dimenticherò i canti di Dio / ma il mio creato / ucciderà il tuo pensiero” (p. 112). L’io poetico si rapporta all’interlocutore senza riferimento esclusivo, ma col coinvolgimento di ben altri elementi: “Ma tu ricordami come una vampa, / mentre tortuosa su di me si abbatte / l’immagine del Signore” (p. 125). Ecco l’esperienza mistica tramite la quale l’immagine del Signore viene evocata abbattendosi sull’io poetico, sempre in relazione al “tu” minuscolo entrando in questo gioco dinamico quasi di teatralizzazione. La parola di Maurizio Gregorini è sconvolgente per il suo legame sacrale col discorso amoroso. Questa è una novità sorprendente, non si era mai visto prima un connubio così insistito fin nel dettaglio dell’eros col sacro, specialmente se si pensa agli effetti di “stupore” che Luca Canali riconosceva al poeta, facendo il nome di Catullo.
Tutta l’opera nel suo complesso si presenta come un assoluto, non si nutre che di una propria motivazione misteriosa. Ecco perché Agostino Raff, nella postfazione delle Edizioni del Cardo (2011) a L’odore del nulla o l’eresia del Cristo scomposto, a me già noto, scriveva giustamente che “la tensione al calor bianco di questa poesia non deve nulla alle influenze culturali del circostante. Questa poesia è gloriosamente isolata, si percepisce prorompente, nativa.” Leggendo questi versi ci rapportiamo a una fonte sapienziale estremamente complessa, che allo stesso tempo ci induce ad andare nel profondo del nostro esistere e quindi del nostro rapportarci agli altri: “Sarebbe saggio non amarti, Cristo. / Saggio sarebbe non amare alcuno” (p. 226). Quando si parla d’amore in questo libro, e in un certo senso si può dire che non si parla d’altro, il lettore è quindi portato fuori dal ciarpame sentimentale di tanta culturalmente inutile produzione libraria corrente.
Sigillo di spine si presenta come un’educazione sentimentale provocatoriamente in contrasto con una concezione e un vissuto sdolcinati, superficiali e consumistici dell’eros: “Ah poeti!, non eravate voi / i nuovi messaggeri / dell’attrazione sessuale / o gli epici smaniosi / di una mitezza senza fine? // Ora cacciate fuori le vene dal corpo, / strappate fuori le budella dal ventre” (p. 345, da Conchiglie e vortici, originariamente con una introduzione di Luca Canali), oppure: “L’energia omosessuale / tace la sua forma / poiché essendo segretamente libera / – come il creatore – / deve eclissare / il suo punto di genesi” (p. 383). E mi piace che i versi giovanili delle prime pubblicazioni non sono stati rifiutati ma solo ritoccati, avverte l’autore, “per poter ritrovare in essi anche un po’ della mia sensibilità espressiva di adesso. L’anima poetica è atemporale e, in quanto tale, immutabile; le forme in cui essa prende corpo sono soggette a inevitabili trasformazioni, come in una naturale evoluzione biologica”. Si scrive infatti, in fondo, sempre lo stesso libro, il poeta vive, come tutti, nel tempo ma anche in un’altra dimensione, che è senza tempo, cambiano soltanto di volta in volta i risultati: “Oh me maledetto che mi tocca / vivere sgraziato e segregato / in questa fascinosa torre / offerto a te follia / come uno squallido sacramento / di un rugginoso altare “ (p. 240, da La prigione dell’aurora, che nell’edizione precedente conteneva una nota di Dario Bellezza).

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