#Orienti_2
Una spiga, ovvero la vedetta della poesia
Sheila Moscatelli, Una spiga, peQuod, 2025, collana Porto Sepolto, prefazione di Francesca Serragnoli, pp. 88.
Il poeta è un cavaliere errante in lotta con la ferialità dell’esistenza. Vorrebbe, il poeta, svettare come una spiga in un campo di grano, incurante della mietitura di fatti, situazioni, accadimenti che si presentano al suo sguardo e che chiedono incessantemente di essere ordinati, capiti, interpretati, svelati prima che la falce dell’oblio vibri il suo colpo letale. Potremmo anche dire, noi che ci muoviamo con dimestichezza quotidiana tra Tera al cubo di files, che il poeta “salva” la realtà nella sua rete di parole. Lo fa certamente Sheila Moscatelli, poeta-vedetta di Una Spiga (peQuod, 2025, collana “Porto Sepolto”), appunto, che scrutando per minimi segni e scarti e presagi un orizzonte di giorni «dove niente è perduto – tutto è raccolto» (p. 16) sa riconoscere e quindi accogliere “l’eterno dentro il quotidiano”, come scrive nella dedica iniziale. E non si dà una tale disposizione senza una previa “tenerezza” (così Serragnoli in Prefazione) per tutto ciò che nel creato canta sommesso; il che, nella poesia di Moscatelli, si traduce in un compito di pazienza e disciplina, come può esserlo il pedinamento della luce quando «si stringe nel buio che avanza» (p. 16), o quando tramuta nelle «ombre delle quattro, allungate / sul canneto al margine del campo» (p. 17), o ancora lungo la discesa nelle «profondità della terra / al riparo dal gelo della ragione» per assistere alla «trasformazione del seme» (p. 63). E mentre dunque il passo cadenzato delle stagioni «mostra l’efficienza della rigenerazione» (p. 39), legge di morte e (ri)nascita davanti a cui la poeta china sacralmente il capo, il mandato della poesia si palesa nella metafora di Una spiga: «Scelgo le parole […] / per una storia diversa» (p. 47). Una storia in cui la natura, pur con il filtro della mitologia classica (una Persefone rivista anche attraverso la lente di Louise Gluck), è nominata adamiticamente, senza i finti pudori di una modernità che vuole semplificare ed escludere il mistero (non solo simbolico) del grano, «quella magia antica per cui / quando acqua e farina / si uniscono diventano cibo» (p. 51); la persistenza silenziosa delle «radici» in un «desiderio [che] germoglia impaziente attraverso i vestiti» (p. 49); persino la «felicità», collettiva e individuale, mai «cosa semplice» (p. 73). Sheila Moscatelli allora si fa portavoce di un augurio-spiga che si innalza sotto il cielo luminoso di maggio: «cerca le parole per farla suonare / e abitale, come fossero il tuo corpo» (p. 73). In fondo la felicità è una cosa quotidiana, se uno sa come vedere.
Pietro Russo
Quando la gravità schiaccia a terra
e l’asfalto morde la carne
il corpo punta a contenere i danni.
Poi il dolore, che frena e protegge
insegna movimenti nuovi, mentre la pelle
mostra l’efficienza della rigenerazione.
*
Ho fatto il pane pensando a noi
a quella magia antica per cui
quando acqua e farina
si uniscono diventano cibo.
*
A terra una treccia rossa di sangue
fa tremare per il futuro rubato.
Ma noi abbiamo semi e pazienza
e il mare entrato dalla finestra che lascia
un ricamo di schiuma sull’erba verde.
*
La felicità non è cosa semplice
senza temere la pioggia battente
trova riparo e coltiva patate
avanza a piedi nudi, con passi gentili
come sul legno del pavimento di casa
scegli con cura le piante del giardino
con cui condividere il pane e le ore
cerca le parole per farla suonare
e abitale, come fossero il tuo corpo.







