#1Libroin5W
Chi?
Guido è un uomo che per mestiere ritrova oggetti smarriti; e che si imbatte in un caso improbabile affidatogli da un anonimo cliente: ritrovare un orologio andato perduto nella sterminatezza di Roma, la città eterna. Unico indizio, una foto. Inizia così una rocambolesca picaresca funambolica caccia al tesoro, una ricerca apparentemente pretestuosa e sconclusionata, nella quale Guido viene accompagnato da una classica spalla, un aiutante assunto all’occorrenza un Sancho Panza improvvisato, e ribattezzato del tutto arbitrariamente Winston Coleman. Nella loro ricerca per i quartieri e le strade di Roma, i due incontreranno uno dietro l’altro personaggi bizzarri dai nomi fantasiosi (Ettore Calcestruzzo, Alice Tuttoburro, Ulisse Pulviscolo, Margherita l’Apriscatole…): personaggi grotteschi e caricaturali, ma che a poco a poco sveleranno tutta la loro umanità, e aiuteranno in qualche modo Guido nella ricerca dell’orologio.
Cosa?
Il lama dell’Alabama è un romanzo sulla perdita e sulla ricerca. La perdita – avviene che sia così – non è semplicemente quella di un oggetto, di un orologio. A volte avviene che la perdita possa essere quella di una persona cara, e che la perdita di una persona cara, oltre al dolore, possa portare con sé una perdita di senso. E anche se non ci sono armi di difesa contro il dolore, né palliativi, almeno possiamo contrastare il senso di perdita (e la perdita di senso) mettendoci alla ricerca. Così fa Guido, così fa la voce narrante, invocando al proprio fianco anche il lettore lettrice. Lungo la ricerca ricorre continuo ossessivo un refrain: “mentre Sabrina spira”. Ed è con queste parole che si apre il romanzo.
Quando?
Nel gennaio 2021 la vita di una persona a me cara si è fermata, finita più o meno nel mezzo del cammino. Eravamo storicamente in uno dei vari periodi pandemici, tra regioni di vari colori, distanziamenti, difficoltà nell’accedere alle cure (che non fossero per covid), situazioni ospedaliere estreme; e dopo, l’impossibilità logistica di condividere il lutto con le altre persone coinvolte. Per due o tre mesi, da quel gennaio, nel normale svolgersi della mia vita avevo per la testa sempre le tre parole con cui comincia il romanzo: “mentre Sabrina spira”. Sono partito da lì, poi è venuto con me Guido, poi Winston Coleman, e poi tutto il resto, con un canovaccio, e con tanta libera improvvisazione (almeno in prima stesura). E così Il lama dell’Alabama è diventato il mio modo per elaborare un dolore.
Dove?
Il romanzo ha una fortissima ambientazione romana. Roma è la città dove vivo da quindici anni, e in un libro che è tutto uno slancio verso il fantastico, quasi per contrasto volevo creare una mappatura precisa e puntuale della ricerca di Guido: quartieri (l’Appio latino e il parco della Caffarella in particolare), strade e vie, negozi e ristoranti: tutto strettamente rispondente al vero (quando non manifestamente trasformato). Roma, città eterna, è il luogo perfetto per la ricerca di un orologio; Roma, città eterna, è perfetta per raccontare un singolo momento, effimero e così potente.
Perché?
A metà circa del romanzo, la ricerca è in stallo, e Guido ne approfitta per prendersi una pausa e raccontare alla lettrice lettore di come la sua carriera di ricercatore e trovatore ha avuto inizio. Viveva un momento doloroso, di crisi, era l’avanzo di sé stesso, sul pavimento di un monolocale vomitava il proprio polmone. Aveva perso tutto. Ma in qualche modo si è rialzato (racconterà). Ed è lo stesso Guido, verso la fine del romanzo, a dire alla piccola Margherita l’Apriscatole, una bimba di nove anni bullizzata per i suoi denti storti, a dirle con grande semplicità che la vita a volte è così: una merda. Ma è solo se questa merda non cerchiamo di trasformarla, che va tutto in vacca. Con Il lama dell’Alabama ho cercato di affrontare e attraversare e condividere quel momento lì, quel dolore lì; e di trasformarlo – citando altre tre parole di Guido, le più banali – in “una cosa bella”.
Scelti per voi
Pag. 156-157
Mentre Sabrina spira, una bambina elementare di nome Margherita entra dentro la scuola elementare A. Manzoni di via Lusitania, raggiunge la sua classe ed entra nella sua angoscia, ogni giorno, per sei ore al giorno della sua giornata mattutina, questa bambina Margherita entra nel suo grosso groppo, lei che ha perso le sue risa grasse si ritrova rosa da un groppo orso, orco. Mentre Sabrina spira, la bambina Margherita si chiude si angoscia e non capisce: perché proprio lei, perché proprio a lei e contro di lei; piange Margherita si incupisce e piange si intristisce e piange e maledice: ma piccolina Margherita, fanciullezza elementare Margherita, ferita, quando piange e maledice non maledice le offese, non maledice chi offende ma maledice i suoi denti, quei suoi denti tutti storti, uno a destra uno a ponente e il canino trasversale e le malocclusioni e i morsi incrociati, gli affollamenti e i morsi aperti, i morsi profondi, profondi dentro, i morsi mostri.
Mentre Sabrina spira la vita fluisce da secoli millenni con le stelle e le galassie, con i mali e i mari, le tragedie gli accadimenti le pagine l’ossigeno, l’anidride carbonica l’acqua tonica, la musica le sinestesie, le anestesie, le nevrastenie, le offese, le persone, gli aghi di pino gli origami, mentre Sabrina spira, acqua e farina e si fa il pane, la deriva dei continenti, dei contenti, le piattole, i microorganismi, i gambi i petali, la rosa dei venti, Margherita. Mentre Sabrina spira mi piacerebbe, vorrei poterti potrei, raccontare la storia di come meticolosamente mi adopro e proteggo e metto al riparo Margherita dalle offese, dalle ingiurie, dai mali dai mostri, dalle spiacevoli sorprese, dagli agguati, da Leonardo e Federico, dai semafori, dalle mani senza nomi, dagli incattivimenti, dalle incomprensioni dalle angosce, dalle manipolazioni dalle interpolazioni, accidenti, Margherita Margherita, vorrei saperti poterti raccontarti questa storia ma questa storia a volertela raccontare è impossibile, un’utopia, aspetta no, com’era?, una chimera. Mantra Sabrina spira, allora Margherita, cerco umilmente di raccontarti quello che posso che tocco che vedo, il possibile il fattibile l’esperibile l’esplicabile, cerco di raccontarti di un dono una piantina da accudire coltivare germogliare rinvasare, una forza, sperando di non disperderla sperando che non ce la annientino, resistendo davanti alle offese, una forza di reazione Margherita, utile a due anni come a ottanta e centoventi, utile potente questa forza, che abbiamo Margherita, ce l’abbiamo. Se non posso proteggerti, Margherita, ti insegnerò a rialzarti; o forse tu lo insegnerai a me.
Pag. 113-119
Ti dicevo: il crollo tra capo e collo, la tracolla, il trasloco nel monolocale. Lo sbarco, il lunario, di tutto amico mio, ho fatto di tutto. Ma poi il polmone. Crollato, collassato, vomitato. Mah, se dovessi dirti per quanto tempo sono rimasto steso a terra accanto al polmone rancido, non lo so. Fai tu.
E poi ci si è messo il caso.
A un certo punto – da accendere?, come no, ma se vogliamo fumare spostiamoci nell’ampia terrazza, si vede buona parte della città, non piazza Sempione ma buona parte della città – a un certo punto, ti dicevo, il polmone in decomposizione ha preso a puzzare male, e quando un polmone in decomposizione comincia a puzzare rancido, delle due l’una: decomporsi o ricomporsi. In questo senso, trovarmi in un monolocale di quindici metri quadri mi è tornato utile, perché è bastato fare un metro per prendere una busta di plastica e metterci dentro il polmone grumoso. Poi – dopo minuti o dopo giorni – sono uscito oltre la soglia di casa, spingendomi fino al cassonetto della spazzatura. La volta dopo, sono arrivato al supermercato. Ho comprato un succo di frutta, pensa, alla pesca.
Gli zuccheri.
Le vitamine.
Finché un pomeriggio riesco a inoltrarmi dentro la Caffarella. Una passeggiata, cercando di scacciare i pensieri, nei sentierottoli che conducono alla fattoria. Lentamente, con il mio passo, col passo che avevo, che si ha in queste circostanze. Arrivo alla fattoria, mi siedo sulla panchina al di qua della rete – guarda un po’, bello da quassù te l’avevo detto, guarda come a poco a poco cambia la luce – mi siedo al di qua della rete e me ne sto mansueto a guardare gli animali mansueti, che mangiano il mangime, che si odorano, si abbeverano, gloglottano, nitriscono, animalano a modo loro. Mi cerco nella tasca un accendino, e mi accorgo del gatto, un gatto lupesco, accucciato a sfinge, striato grigio accanto a me. Tranquillo, guarda gli animali, si fa i fatti suoi, striato grigio lì accanto a me. Proprio così, amico mio, è quello che ho pensato subito anch’io: un gatto in Caffarella! È un evento insolito inconsueto, se capita capta cattura l’attenzione, si incontra assai di rado un gatto in Caffarella: conigli a mai finire, liberi nel parco, ma gatti no, gatti mai, o quasi mai. E lì per lì invece sì. Ad ogni modo: finisco la sigaretta mi alzo e me ne vado, e il gatto lupesco mi segue; sentierottoli e il gatto mi segue, verso l’uscita il gatto, pensa, mi segue; e lungo la via verso casa il gatto, pacifico sfingico grigio striato mi segue, così gli dico: Gatto, tu sei pacifico e mi segui, ma io sono allergico ai gatti e casa mia è un monolocale di quindici metri quadri in via Vetulonia, non puoi venire con me. Fino in via Vetulonia mi segue, apro la porta di casa e mi precede. E si accuccia. Vado al supermercato e gli compro del latte. Dormiamo nel monolocale e io starnutisco perché sono allergico. L’indomani esco e compro l’antistaminico. Il gatto è a suo agio. Viviamo insieme nel monolocale per qualche giorno. Ogni tanto miagolo e lui mi accarezza.
Poi, amico mio – ed è qui che comincia la mia carriera – una mattina che vado al supermercato per il consueto acquisto di zuccheri e vitamine, arricchiti da proteine e da ciò che si confà ad una tavola urbana, sulla porta del supermercato trovo la fotografia del gatto. Non è un selfie. È una foto che gli ha scattato la sua padrona, una foto che – questa è la mia prima strabiliante intuizione investigativa – è stata scattata prima che il gatto si perdesse. In un qualsiasi altro giorno, ma comunque prima che il gatto si perdesse. Si è perso il gatto, leggo sul volantino. Non lo si vede da qualche giorno, è lupesco, pacifico sfingico, striato grigio. È l’amore della sua padrona, si legge sul volantino, la sua padrona non si dà pace, piange senza pace, ma sa, la padrona sa la padrona sente che il gatto è vivo. E promette: ori e allori a chiunque dovesse avvistarlo, trovarlo, prenderlo riportarlo riconsegnarlo all’amore della sua cara padrona. Firmato: Baronessa di piazza Tuscolo.
Faccio la mia spesa, rientro nel monolocale, ovviamente trovo lì il gatto ma prima di intraprendere con lui una conversazione che potrebbe essere spinosa aspetto che si faccia l’ora del pranzo, perché affrontare certi argomenti in una situazione conviviale può aiutare e oltretutto saggezza vuole che le decisioni importanti si prendano a pancia piena. Apparecchio la tavola, preparo le linguine, impiatto ci sediamo, verso il vino, poi gli dico Gatto, bello mio, la Baronessa ti sta cercando; lei è in pena e puoi immaginarlo, ma la decisione è tua, spetta solo a te: ti sei perso e vuoi tornare a casa, oppure ti sei perso ma vuoi andare da solo per fratte, oppure ti sei perso e vuoi rimanere qui? Il gatto mette giù la forchetta, si pulisce il muso con il tovagliolo di stoffa, viene a strusciarsi con un miagolio intorno alle mie gambe, accarezza il mio polpaccio con la sua testa, e zampetta inequivoco alla porta di casa. Gli apro la porta. Vuoi andare da solo per fratte, gli chiedo, o vuoi che ti riporti dalla Baronessa di piazza Tuscolo? Il gatto oltrepassa la soglia, si ferma, mi aspetta: vuole che lo accompagni.
Passeggiamo, amico mio, passeggiamo io e il gatto in discesa lungo via Britannia, in una giornata dalla luminosità arcobalenica. Quando la Baronessa di piazza Tuscolo schiude la porta e rivede il gatto è un tripudio di gioia che quasi ci rimane. Abbandonando impudica il contegno nobiliare si dilata in rivoli lacrimali e singulti e abbracci e carezze, e baci e sperticati encomi riconoscenti. Io, che mi sono fatto la barba e ho indossato l’abito buono, resto con discrezione, mi faccio sfondo, li lascio al loro ritrovarsi. Poi la Baronessa mi invita a entrare, fa gli onori di casa, mi conduce in un salotto tappezzato di tomi e tomi e libri e volumi e pagine e lettere e dove si era cacciato?, mi chiede. Così le dico che il gatto forse aveva voglia di una passeggiata, di sgattaiolare tra verdi sentierottoli, di osservare sfingico la fattoria; magari al gatto può fare piacere se di tanto in tanto andate insieme tra le fratte della Caffarella, suggerisco alla Baronessa.
Lei da oggi è nel mio cuore, mi dice la Baronessa, lei per me da oggi è di famiglia e ha la mia riconoscenza. Non abbia di me l’idea di una persona lontana dalla realtà, solo perché il mio salotto è una biblioteca di Babele: vivo in questa casa è vero, ma alcune cose del mondo le so, dice la Baronessa. Per esempio, so che la riconoscenza non basta per pagare le bollette, dice la Baronessa di piazza Tuscolo. Mentre mi offre i dolcetti e governiamo piazza Tuscolo dalla sua finestra panoramica, la Baronessa toglie il collare dal collo del gatto, e lo dà a me: Lo prenda lei, dice, ne sarei felice, e anche il gatto è felice che l’abbia lei. La gemma incastonata nel collare, mi accorgo solo ora, ha le dimensioni di un mappamondo in scala uno a uno. A corollario del collare, la Baronessa verga sul biglietto le parole succitate, che qui nuovamente riporto, amico mio, perché la memoria e l’attenzione sono labili.
Niente vale la gratitudine che nutro nei suoi riguardi, ma forse questo ci si avvicina.
E se potrò esserle utile in qualche modo, di qui in avanti, non si faccia remore. Questa è casa sua. La porta è aperta.
Non ho più rivisto la Baronessa di piazza Tuscolo, almeno non di persona. Lettere. È lì che la rivedo, è lì che le faccio visita, lì che ci incontriamo. Inchiostro e fogli. Le scrivo, ogni tanto, lettere vere, lettere di grafia, imbustate affrancate e spedite, nonostante si viva a non più di settecento passi l’uno dall’altra: spedite: queste lettere viene a prelevarle il postino dalla buca sotto casa, le porta chissà dove nel centro magno di smistamento operativo degli uffici postali, restano lì del tempo sbirciandosi e confabulando con le sorelle lettere, si baciano tra francobolli, si leccano tra colle, si confidano parole, poi si salutano, per essere destinate alle loro destinazioni, le mie, quelle di mia grafia, tornano qui in zona e vanno a piazza Tuscolo, la Baronessa le ritira dalla sua cassetta, trova il mio nome, apre con cura, si siede sulla poltrona dalla quale governa e legge, affacciata su piazza Tuscolo. E risponde puntuale e salvifica.
Sulla soglia di casa della Baronessa – pronto ad andare – mentre il gatto si struscia di caldo languore e coccole fuse sulle gambe padronali, io capisco che ho fatto una cosa bella.
Una cosa bella.
Lungo la via del ritorno, risalendo via Britannia, superando bar benzinai farmacie erboristerie oculisti gelaterie, lungo la via del ritorno non posso che prendere atto: di ciò che è, adesso, la realtà: io ho appena risolto il mio primo caso.
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Nicolò Cavallaro (Palermo, 1981 – nella foto di Valeria Bianchi), è redattore e editor freelance. Ha lavorato per Nutrimenti, Fanucci, Gremese, Gaffi, Rina edizioni, e gestisce una piccola agenzia di servizi editoriali, Duemila battute. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie. Il lama dell’Alabama (Hacca Edizioni) è il suo romanzo d’esordio, segnalato dal Premio Calvino per “l’inesausta effervescenza verbale, divertente, ironica e colta”.