tre domande, tre poesie
Anni in testacoda di Massimo Cecchini è un poemetto, pubblicato da Fallone Editore, legato alla memoria e alla meditazione sul vissuto, nel quale il linguaggio si fa speculare alla vita. Un’analisi introspettiva tradotta in versi e portata avanti gestalticamente, una sorta di consuntivo parziale in cui spiccano la misura, la cadenza meditata, il tono riflessivo tradotto in relazioni antifrastiche: stato verso stato, cosa verso cosa. Cecchini in quest’opera si discosta dalla scrittura giornalistica e decide di attraversare i temi del tempo che si sgretola e delle parole che si spezzano, del viaggio come corpo del mondo e del corpo che si fa vettore dell’aver amato anche le imperfezioni.
Partiamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Anni in testacoda”, (Fallone editore), meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
“Da giovane, come sarà accaduto a tanti, pensavo che l’uso della parola attraverso dei funambolismi letterari mi avrebbe aiutato prima a difendermi e poi, magari, a costruire una identità. Con il passare degli anni, è invece lievitato il desiderio di percepire meglio le infinite possibilità inesplicate che si agitano in ciascuno di noi liberandole però dagli artifici. Ho scelto perciò, in modi diversi, di esplorare o ipotizzare ciò che sarebbe potuto succedere in caso avessimo compiuto scelte alternative a quelle fatte, con tutti i relativi sommovimenti emozionali che ne sarebbero derivati. Mi piace trasmettere la consapevolezza che i sentimenti che si provano quando si è giovani e quando non lo si è più, sono sostanzialmente gli stessi: amore, rimpianti, speranze, oltre che, in variabile misura, il confronto con la morte. Ciò che cambia è la maniera di raccontarli, dando vita a un testacoda, appunto, in cui passato e presente non appaiono poi così diversi. E se è vero che la nostalgia innerva tante pagine, è proprio perché la sola vita che siamo stati chiamati a scegliere ci lascia orfani, o quantomeno curiosi, di quello che abbiamo perduto”.
Ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento?
“Innanzitutto mi ha condotto alla scoperta di un tipo di linguaggio di cui avevo bisogno. Se è vero ciò che Gabriel Garcia Marquez aveva reso esplicito (“ciascuno di noi ha una vita pubblica, una privata e una segreta”), ritengo che la poesia sia la lingua che occorre per raccontare la vita segreta. Nella poesia non ha senso mentire. Si può velare la verità, descriverla per metafore, ma non cancellarla dall’orizzonte, come invece la prosa è autorizzata a fare. Se la narrativa, infatti, rispettasse pedissequamente la realtà, non servirebbe a nulla. Per questo deve riuscire a essere diversa senza permettersi il lusso di essere inverosimile, privilegio (o condanna) consentite solo alla realtà. Grazie alla poesia, invece, si approda in uno spazio diverso, in cui prende luce una necessità destinata a diventare messaggio. Nella rincorsa alle parole “giuste” trovo che sia impossibile prescindere da un bagaglio tecnico che ci orienti e ci consenta di oscillare fra il suono e il significato. Strutture, metriche, assonanze, rime, allitterazioni si confermano decisive come i contenuti. Anzi, a volte riescono addirittura a modificarli nel trasportarci verso folgorazioni dal valore ancor più universale rispetto alle cause che le hanno generate”.
“Eppure io ti avevo/ altrove,/ nei silenzi pieni/ in cui lungo le ossa/ correvano autostrade.”, con i tuoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia, la poesia è un destino?
“Credo che le parole non bastino mai, neppure se fossimo autorizzati alla costruzione di tutti i neologismi possibili. Gli spazi destinati al non detto – ai silenzi, appunto – spesso sono più espliciti di qualsiasi dichiarazione. Ritengo che la poesia sia una scelta, perché è chiamata a dare voce a delle forme espressive che non potrebbero lievitare altrimenti. E poi, nei rari casi in cui si è soddisfatti davvero, si può approdare persino a quel senso di liberazione concesso dal confrontarsi con i fantasmi di parole, opere e omissioni senza lasciarsene piegare. Scrivere “Anni in testacoda”, in fondo, è stata anche un modo per tentare di far pace con me stesso e il mio passato”.
scelte per voi
Avviso ai viaggiatori:
sono in transito.
Scarrozzo
col respiro grosso
fino alla coda
degli ultimi vagoni,
nascosto tra coloro
a cui non spetta più
l’orizzonte del locomotore.
Non è un gran male.
Trapassando i vetri
ho visto scolorire il desiderio
e lievitare il sentimento.
Confido adesso nell’ultima stazione
finalmente senza croci addosso.
Dicono ci attenda amore
liberato da aggettivi,
a girotondo.
Dicono sia bello,
quasi perfetto.
Attendo diffidente
a volo basso.
Mi basterebbe la certezza
che a terra
sia sciolto dai rimpianti
per il poco fatto bene
e per il troppo irrimediabile.
—
Non ho più la forza
di nocche bianche
strette su un volante.
Anche quest’ultima corsa
è arte
fatta di controllo
guizzi e occhio rapinoso
capace di riassestare
le sbandate
di un tempo
condannato spesso
al testacoda.
Adesso alzo il piede
e se non fosse gesto desueto
vorrei mettere il gomito
al vento
guidando con una mano
piano
col panorama
che rotola accanto
lucidando
finalmente
la sua coda di pavone.
—
(prima stesura)
Abbi ora pietà per il mio corpo stanco.
M’invento vivere non conoscendo
strade che fuggano via dal cuore
e seguo il loro corso amaramente
finché l’ombra non cade lì dove
solo qualcosa tace
(ultima stesura)
Abbi ora pietà per il mio corpo stanco.
M’invento vivere non conoscendo
strade che fuggano via dal cuore.
Ritrovo sempre passi
che non mossero mai
per un altrove,
eppure in quelle impronte vuote
c’è una vita inventata
che ricordo.
—
Massimo Cecchini è nato a Teramo nel 1961. Si è laureato in Lettere Moderne a Firenze, curando negli anni successivi una serie di bibliografie di storia medievale e storia dell’arte presso le maggiori biblioteche fiorentine. Divenuto giornalista, ha lavorato per La Nazione, Il Centro e l’Ansa prima di fare a lungo l’inviato in tutto il mondo per La Gazzetta dello Sport, collaborando anche per radio, tv e periodici stranieri. Attualmente collabora con Il Messaggero, il sito Cronache Letterarie e la newsletter Scomodi Contrasti. È docente di giornalismo e scrittura presso le università Luiss e Marconi. È autore del romanzo Il Bambino (Neri Pozza), nel 2023 candidato al Premio Strega e finalista al Premio Cesari. Ha vinto il Premio Teramo per un racconto inedito. Ha scritto una biografia su Muhammad Ali (Diarkos). È curatore di una nuova collana di narrativa edita da Diarkos (gruppo Rusconi).