anteprima
L’occhio mi cadde una mattina
con orrore. Fissavo – bocca
e naso appesi a un amo –
la disattenzione della gente.
Allora torsi a canapo
la testa e feci il più:
che tolsi l’altro pure,
ridicolo, spaiato.
Adesso mi porto col destro
in vece del sinistro, e viceversa.
E siccome sono identici
non è facile distinguerli.
*
A volte, rasentando
i pubblici macelli,
se c’è vento capita
di sentire un urlo.
E pellegrini in sala mensa
all’ora del pasto,
sarebbe bello
confessarsi nei megafoni.
Solo ti accorgi di opporre,
lontano così
dalla notte dei tempi,
significati minimi alle cose.
Sbatti contro le parole,
faccia al muro. Lo fissi
come guardando una montagna,
un vuoto d’aria.
*
Superfici
Non c’è sguardo che fissi la mia nuca
ma un’altra nuca ancora,
seduti come siamo
lo sconosciuto e io,
dentro il gazebo che fa vela
a Treviso, in Piazza Pola.
Impareremo a decifrare,
immobili entrambi e premurosi,
l’orografia dei corpi,
le superfici vaste,
le nostre schiene
come tabulae incisae.
Insetti ermafroditi a pelo d’acqua
che si toccano da dietro.
*
giardino zen
Stornare con tatto lo sguardo
e ferocia, laddove
la giovane che vive dirimpetto
in uno svolo sfili,
da sotto gettandolo nel cesto,
l’intimo rosa color carne.
Traccheggiante sul ciglio d’una tazza,
su natiche seduto di fachiro,
considera la scena:
due ginocchia puntute,
in tutto mascoline
a cui solamente ti abbracci.
Essere altrove vorresti,
riposare sull’erba umida,
al mormorio di ghiaia fine
e irrorata
di un giardino zen.
*
V e n t o c a t t i v o
Al primo sguardo dopo il sonno
e come mosso
da correnti contrarie
eccoti infine giunto al pianterreno.
Dal taglio dei libri si leva
a coltello contro i muri
quel vento cattivo.
Agita pensieri dov’erano
visioni e stanze illuminate.
E per quanto s’aprano
e sbattano i tuoi gomiti
in una pretesa parodia d’ali,
fuori ci trascina
a presumere il mondo.
*
L a s p e s a
Il futuro è appena più in là,
oltre la data di scadenza
del cartone delle uova
– quel giorno tatuato
in grassetto e nero.
Nessuna cosa nuova nei discount
poté mai avere inizio:
mutare forma la materia,
il latte cagliare,
gettare le patate i propri butti.
E finisce per stremarti
questo venir meno delle idee.
A capo chino sopra la vaschetta
del frigo, e genuflesso,
mentre disponi
nei suoi scomparti la tua spesa,
ecco ti scoppia nel cervello
un lampo senza aloni.
*
D e p e r o
Si getta nel profondo,
entro grandi scapole aguzze,
quel solco a fondoschiena.
Di poi le gambe,
irrigidite e strette
come bracci di compasso.
Uno puntandone,
divaricando l’altro,
esco dal mio cerchio in un sol passo.
Ed ero fitto e capovolto,
invisibile a me stesso,
dedito e conteso.
*
Muovi alla luna senza far rumore.
Intorno alla mole adesso
senza più corpo della casa.
Una minuscola isola d’insetti
d’un tratto cessati.
E le vocine di nuovo ancora
e l’ombra gialla fina.
Infima vigile subitaneità.
*
A girarla la testa
avresti tuttora visto i due: lei
e l’uomo inginocchiato accanto al letto.
O comunque sul tappeto
le impronte di due paia di ginocchi.
O meno ancora: non una forma del tatto,
nemmeno un’impronta fantasma
in un vero tappeto.
*
Domenica, ora viola.
Precipita a lento moto sul parquet
un peso piuma di rette sghembe.
O dovrei dire piuttosto un kiwi o
l’uccello trampoliere.
Ripeteva l’asimmetrica posa
di un piede sospeso a mezz’aria
invece di cacciarlo nella bocca
allargata del pigiama.
Sottosopra mi vien fatto di pensare
a quanto avessero ab antiquo
avuto ragione:
di fare del cavallo
attributo di re.
*
Adesso che è notte
respiri forte con intenzione.
Una centrifuga in azione
con due scarpe dentro.
Inspiri l’odore umido di nebbia
e terra in vaso smossa
come il nero impenetrabile pensare
dei ruminanti in una stalla.
Al sentire l’odore che cerchi
di renderti proprio,
stillano umori le pinne del naso
ansanti come froge.
*
Adesso neanche trotta.
Si leva il bastone e cade
inutile, tremendo.
L’uomo smonta di sella
e piega verso l’animale.
Faccia e muso in una posa d’ascolto.
O di preghiera.
Si leva il bastone e cade.
Si volta, esce l’uomo correndo
dalla vita del cavallo.
Come se al mondo mai
cavallo e cavaliere
si fossero incontrati.
Giovanni Turra (nella foto di Marianna Pisani) è nato a Mestre nel 1973. Vive a Mogliano Veneto. Insegna italiano e latino nei licei ed è cultore della materia presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 2017 al 2022, con Igor De Marchi, Maddalena Lotter e Sebastiano Gatto, ha diretto la collana «A27 poesia» di per Amos Edizioni. Ha pubblicato i libri di poesia Planimetrie (Book 1998), Condòmini e figure (in Poesia contemporanea. Nono quaderno italiano, Marcos y Marcos 2007), Con fatica dire fame (La Vita Felice 2014). Come studioso, si è occupato di letteratura di viaggio e letterature straniere nella stampa italiana tra le due guerre, della ricezione del mito classico nella poesia italiana recente, della produzione in versi di Dino Buzzati, dell’opera in dialetto e in lingua di Luciano Cecchinel, delle trame reticenti di Francesco Biamonti.
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Pordenonelegge casa della poesia: la 25^ edizione del festival conferma la sua vocazione per l’esplorazione del fare poetico nel nostro tempo, e rinnova la magia di un cartellone che è anche il più articolato osservatorio sulla scena poetica contemporanea, con 30 incontri in cinque giorni e oltre 50 voci poetiche da tutta Italia e dal mondo, con tante novità e anteprime editoriali, con grandi dialoghi che salutano il ritorno di autrici e autori affermati ma anche i poeti esordienti, in un costante monitoraggio sulle generazioni che si affacciano alla parola poetica. Tra questi anche Giovanni Turra che con Peepshow raccoglie le poesie pubblicate e gli inediti de “Il bosco degli spiriti”, composti negli ultimi anni, confermando una voce forte del panorama italiano – canto, grido o verso animale – che chiede amorevole attenzione. Delle raccolte incluse è mantenuta la fisionomia originale, secondo un percorso che consente di ricostruire l’evoluzione dell’autore: si trascorre così da un’architettura compositiva che ritrae luoghi e persone nell’istante di un crollo, nel loro nuovo ordine di macerie, al respiro degli ultimi testi, dove, dove il tono si fa qua e là più narrativo e l’incedere si posa su forme riconoscibili.