“Ascolterò gli angeli arrivare” di Jon Fosse. Il ‘possibile’ si manifesta come pulviscolo fiorito di immagini.

Ascolterò gli angeli arrivare” (Crocetti, 2024, prefaz. di Andrea Romanzi) comprende le raccolte poetiche che il Premio Nobel per la Letteratura 2023, il norvegese Jon Fosse, ha riunito in un volume antologico, dal 1986 al 2016. Il titolo che si è dato all’opera, è un titolo-mondo: rievoca la moltitudine di temi e immagini afferenti all’interiorità dello scrittore norvegese, per il quale “la lingua arriva da un luogo segreto dentro di sé”. La lingua poetica di Fosse ha un alfabeto di pause, attese e tremori che ne rivelano l’origine dall’ascolto, attento e silenzioso, del tempo fuori del suo ordine. È un patto con l’assenza, o meglio con l’assenza dal Sé, in uno spazio che spezza la prigionia del visibile e si permea di angeli o presenze memoriali che vivono della loro lontananza. Il possibile si manifesta come pulviscolo fiorito di immagini, è il sottofondo di ogni memoria, di ogni sentire nel quale le parole, quelle interiori, sono libere dagli statuti del dire e si spiegano in una lingua sussurrata, tutta rivolta a sostenere l’interiorità e i suoi accadimenti.
Andrea Romanzi, autore della prefazione al volume, osserva:
La scrittura poetica di Jon Fosse rappresenta il luogo in cui si concertano quegli aspetti di creazione artistica intimistica, laddove trovano una forma espressiva gli elementi più intimi e mistici della sua scrittura, e tra i cui versi è possibile scorgere piccoli lampi che ritraggono il poeta stesso […] la poesia di Fosse procede per immagini della memoria di un passato dai toni opachi, perduto nella lontananza. L’aspetto visivo, con questo procedere per visioni, immagini e dettagli, è fondamentale per lo scrittore norvegese, che ha sempre sognato di diventare un pittore.
E tuttavia, analizzando la produzione poetica di Fosse, si ha, come osservato da Ingrid Nielsen, almeno a partire dalla poesia degli anni Novanta, un progressivo distanziamento del soggetto poetante dalla voce poetica: “l’io linguistico non corrisponde più a un io umano”. La non coincidenza dell’io autoriale con l’io poetico permette l’emergere della voce della scrittura, e dunque di un flusso che attesta l’origine mistica e incomunicabile della poesia stessa:

Che sia l’inconscio inaccessibile oppure ispirazione mistica e trascendentale è difficile dirlo, ed è il poeta stesso a chiedersi “chi sta scrivendo?”:

“chi sta scrivendo? sono io/ oppure c’è qualcuno che scrive dentro di me e che/ scrive ciò che io scrivo/ attraverso di me, forse sono io che scrivo// se sono io che scrivo/ allora c’è un io che, ogni singola volta, è diverso”

La depersonalizzazione dell’io autoriale, che in questo modo non è più performativo, permette l’incontro e la commistione tra lo scrittore (colui che scrive) e lo scritto (skrivaren og skrift), che si mescolano in modo indistinguibile, dando vita alla voce della scrittura (skriftstemme) che emerge all’interno dell’eterno movimento della scrittura tanto caro all’autore norvegese. In questo movimento della scrittura, la parola è sempre cangiante, costantemente piena di significato e al contempo priva di referente immediato, comprensibile e incomprensibile allo stesso tempo:
e mi muovo nel giorno/ in cui l’albero è albero/ in cui la pietra è pietra/ in cui il vento è vento/ e in cui le parole sono incomprensibile unità/ di tutto ciò che è stato/ e di tutto ciò che scompare/ e così restano/ come parole di riconciliazione
E sta proprio nella provenienza ultraterrena della scrittura che si concretizza il paradosso della comunicazione: sta nella sua espressione il suo stesso limite di incomunicabilità.

Il poeta si fa da ponte per un altrove che ha echi e risonanze dal di dentro. Egli si fa sacerdote della parola, configurando la poesia come preghiera:

L’impossibilità linguistica e la scomparsa dell’io diventano quindi il terreno su cui fiorisce la poesia di Jon Fosse, che sembra arrendersi alla lingua del subconscio, una lingua che si fa preghiera. Una lingua che si sforza di creare una realtà diversa e che si concretizza, attraverso la poesia, come quintessenza della letteratura, che altro non è che dio.

Così, ogni immagine, entro cui ha forma la memoria, è per il poeta luogo di spaesamento e conoscenza dinanzi all’indicibile:

I

il cavallo, ed è già notte. Puzza di sudore
e neve rossa sulla giacca di mia madre. Ho acini d’uva
in bocca, un uomo parla. Alti
banchi di neve. L’uva in un sacchetto nero. Musica
obliqua, e un vento nero. Il calore. La chitarra
è una finestra verde. Dagli occhi colano i colori e mia
madre chiede
dove sono stato. Avrei dovuto
essere a casa da tempo
È in piedi
Cammina sul pavimento del salotto
Hai solo dodici anni, dice

II

erba gialla lungo le spalle. Ci addentriamo
nella montagna azzurra, l’uva
Mi tiene per mano
La mamma ha il terriccio nei capelli e
in lontananza
grida il mio nome

L’arco narrativo nel quale la memoria poetica si protende assume contorni indefiniti e sfumati. L’interiorità è il luogo in cui il poeta avverte la caduta di ogni riferimento spazio-temporale per poi rinvenirsi in frammenti d’immagine familiari che si caricano però di significati archetipici. La montagna azzurra prelude allo sconfinamento nell’altrove, è segno che l’addio è dietro di noi. La figura materna è una figura anfibia, la cui esistenza si colloca tra essere e non essere: essa non solo ha tratti e caratteristiche di questo mondo, ma nel contempo è anche in prossimità di quell’altro, dove il nome del poeta riecheggia destinato a farsi lontananza. E infatti poco dopo:

I

Il treno nel cuore è lungo
come il vento, lungo
come un albero nero. Mia madre ha
il vento in secchi di plastica arancioni. Lava
il pavimento con movimenti esperti. Mio padre
tiene la testa sotto il braccio e fischietta
alle stelle
con gli occhi. Io voglio tornare a casa dove
l’ansia è terriccio sui piedi, dove
la radio ha un pacificato odore di salsa marrone
per musica da organo
ogni domenica mattina, lì
dove il fiordo respira tra le pere mature.

II

Sempre più lontano, distante. Più lontano
e sempre più vicino.

Nella lontananza prende forma il desiderio. Le coordinate geografiche entro le quali il desiderio si inscrive sfumano ogni possibilità percettiva con l’effetto di ampliarne il carattere visionario. L’anelito al ritorno è pregno della necessità di una riconciliazione con l’assoluto che spira dai paesaggi dell’infanzia e informa di sé l’immaginario poetico:

I

la neve era
come stare sotto il lampione
E dietro ci sono le nuvole segrete
dietro le mani c’erano giorni profondi, e
lei si nascondeva ridendo dalla lampadina
in autunno, in inverno. Sentire
la lingua nella bocca. Essere così giovane, lilla
E il lampione, la neve

II

la cenere ricopre la neve
tra la neve e la pioggia
Attraverso la carta bruciata
e resti di secchi di plastica arancioni
intravide un angelo che la baciava
sulla punta delle dita
Il falò era grande nella neve
tra la neve e la pioggia
grandi fiocchi di cenere. Neve
nera. Bianca

Nei componimenti le memorie procedono per accumulo o sovrapposizione di immagini, il cui particolare cromatismo, oltre a suggerire connotazioni allegoriche, ha nel contempo molto di filmico, come se la scrittura fosse evocata sulla pagina da dietro il filtro di una cinepresa. L’angelo ricorre non solo come nunzio delle possibilità di comunione fra il qui e l’altrove, ma anche come figura del “nostro lutto erratico”:

I

gli angeli hanno
troppo terriccio
per un ragazzino sotto la pioggia
con i libri in un sacchetto di plastica
(libri sul cane sotto la pioggia)

II

un ragazzino con un flauto alla bocca
un ragazzino suona il flauto
e scompare
come un cane

L’apparente labilità della vita risiede nel suo essere destinata alla sparizione. E tuttavia, la sparizione porta con sé l’abbandono e il miracolo, il sonno e la veglia, armonizzandoli come una sinfonia da ascoltare fra le impercettibili vibrazioni del mondo:

un giorno
come un cane che scompare
difficile potrebbe essere
nella musica
la musica lilla di un angelo
un cuore e gli alberi vecchi
contro sé stessi e il vento
e l’anima pesante di tutto ciò che non si è capito

È del poeta cantare quel che l’anima non ricorda e non riesce a ricucire in un’ottica di senso:

c’è un amore che nessuno ricorda
e azzurro chiaro è il cielo
con strisce di bianco, di giallo e di rosso con molto
bianco
anche nell’azzurro, perché il cielo è
un grande cane bianco
che nessuno ricorda
e il cielo è, così compatto, sopra l’erba
ancora un po’ verdognola
in tutto il suo giallo e marrone
dove corrono cani piccoli e bianchi
pieni di una sorta di amore irritante
e sopra c’è l’albero nel suo nero verdeggiare
è un giorno normale e c’è silenzio
quando i cani bianchi camminano, così calmi, nel loro
paesaggio

L’oblio è una zona d’ombra, una scucitura, in cui la parola è ancora origine e movimento. Cantare implica la necessità di ripercorrere a ritroso le memorie perdute, indagarne i nessi e le associazioni, negarsi asilo presso le parole:

mentre altro arriva
tu sei ancora in ciò che era prima
prima di essere nell’altro mentre ciò che era prima
innalza pareti come una casa
in cui una volta sei stato. Ci sono case chiare come l’acqua
ci può essere così tanto silenzio
come nelle oscurità della pioggia, mentre, da ciò che era
prima, verso l’altro
come in movimento, sei tu: quindi, da’ acqua innocente
come una misericordia
entrambi possiamo respirare

E così, ciò che è stato continua a essere nel nostro muoversi verso:

Cammina e cammina
e tutti i morti sono con noi
anche i morti camminano e camminano
dentro di noi
cammina e cammina
tutto cammina e cammina
i morti che sono scomparsi
i morti che sono soltanto quasi scomparsi
e tutto cammina e cammina
e tutto ciò che esiste
cammina e cammina
gli uccelli volano in cielo
il pesce nuota sott’acqua
noi camminiamo e camminiamo
tutto cammina e cammina

C’è una fitta connessione fra il mondo interiore di Fosse e la sua trasposizione nel canto, ed è rappresentata dalla consapevolezza che, se tutto è destinato a muoversi, restare è sfiorare l’incandescenza, ardersi del fuoco del divenire:

così troverai i nostri scritti
in ciò che sempre muore
e c’è la pioggia nella nostra solitudine
Perché stiamo sotto la pioggia
con i cuori limpidi
senza dolore né vergogna
senza il sole stridente senza fieno
Stiamo sotto la pioggia e nel buio
e il terriccio ci
scrive con la sua chiara grafia
così senza freddo. La nostra vergogna è troppo grande
e le nostre voci sono esili
i nostri movimenti sono sempre e mai soli
Perché la pioggia ha una luce
e il buio ha una luce
come la luce che proviene
da una barca nel fiordo
oppure da una casa solitaria
da qualche parte sulla riva. E io remo nel buio
scacciando via il grande dolore

Potrebbero interessarti