Carlo Bordini, I costruttori di vulcani

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Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. Tutte le poesie (1975-2010), Sossella, 2010.

Carlo Bordini nasce come poeta sotto l’influsso delle avanguardie e ne porta le “stimmate” per lungo tempo. La sua disorganizzazione calcolata, l’improvvisazione e il culto delle varianti vengono da lì. Ma gli anni ’70 sono anche quelli del ritorno all’io, e allora ecco che si fa strada (insieme con la prima tendenza alla reificazione e al copia-incolla del referto paratestuale) un autobiografismo stralunato, ironico e allucinato, che lo fa somigliare a un personaggio di Ecce Bombo. Si, è lui l’autarchico morettiano, seduto per terra, ad aspettare l’alba recitando scritti estemporanei che non capisce, per una società che è il primo a  non capire più.

Si parte dunque dall’assunto che «è tutto finito», la Storia, il racconto nazionale, collettivo, la necessità lirica, la ricerca del senso e la speranza di un cambiamento, di un mondo migliore.

Tutto è esploso, e non ci sarà un altro mondo. Rimane solo la polvere e la possibilità di giocare con essa mettendola dentro qualche vaso.

Bordini poeta fa proprio questo. L’atteggiamento  distaccato, la predominanza del gesto infantile, surreale, quel voler restare bambini e in questo modo parlare, perché il mondo è troppo brutto – e si soffre di far parte del “primo” quando il “terzo” è sfruttabile all’infinito – tutto ciò potrebbe diventare una maniera, potrebbe essere un gergo, come quello di Damiani. Ma qui è costitutivo e patologico di un soggetto poetico che resiste e sopravvive a qualunque prova, perché già depresso. Il poema della polvere è in tal senso emblematico, il miglior esempio di quanto si possa tenere di prezioso e di quanto inversamente possa derivare e andare a ruota libera in questo procedimento.

Il partito preso pare essere sempre il seguente: “se più nulla ha senso, io dico e faccio come mi pare” (arbitrarietà massima, autarchia pericolosa in poesia; ma pericolo è il titolo di un altro ciclo di Bordini!).

Il fatto è che questo poeta riesce, come raramente accade in letteratura, a farsi voler bene dal suo lettore. Quasi fosse addormentato dagli psicofarmaci (e dunque senza picchi musicali, senza ritmo, scatto, accensioni), egli ci dice: «In questa levità, / ciò che più importa è l’assenza di acuti, / che tutto sia tondo e raccolto. Basta / questo. Tutto ciò che è devastato può divenire tondo (…) / Sono contento di non capire le cose (…)». A partire da qui, il lettore dovrà perdonargli sia le derive, quando si allontana dall’oggetto principale, sia quando “manca un verso”  finale al componimento. Sembra quasi che Bordini risponda al lettore un po’ alla romana: «se trovi qualcosa di insopportabile, pazienza, se ti incazzi, poi ti scazzi». Di qui la simpatia quasi automatica.

Ma più seriamente, io credo che un picco nella produzione di questo poeta ci sia eccome. E guarda caso è quando trova il suo ostacolo, che gli impedisce di andare a casaccio. È la donna come avversario. Un tema ricorrente nelle patrie lettere, più che in altre letterature europee. Con la donna si ama e si combatte senza esclusione di colpi e poi ci si distrugge. Non a caso un critico come Alfonso Berardinelli ha recensito molto favorevolmente Strategia (1981), per me la raccolta più importante di Bordini, di cui si sentono gli echi sparsi anche in una delle ultime sezioni di quest’auto-antologia (Sondaggio). La forza che contiene tale ciclo poetico (e pugilistico, per riprendere la metafora) sta nel frammentare in breve sequenze legate da una pagina all’altra l’incontro-scontro con la donna, una commistione di profondo raziocinio e spontaneità, che ricorda ancora gli allenamenti dei giovani compagni di Moretti (del primo film), prima delle prove teatrali. Si fa teatro con disperazione, perché non si sa cosa fare della propria vita, ma anche con estrema auto-ironia. Qui c’è un allenatore a cui il poeta chiede se deve continuare a vedere la donna, nonostante le ferite che si aprono e il massacro in corso. L’allenatore lo incoraggia e la persecuzione prosegue. È un gioco mortale, ma va avanti perché è forse l’unico modo che il soggetto ha per sentirsi vivo. Le figure della morte sono talmente tante in I costruttori di vulcani, che il lettore finisce per convincersi che questa lotta amorosa valga comunque la pena, dopo le delusioni politiche (belle le poesie a Trotsky e a Bill Clinton), gli infingimenti, la solitudine notturna, gli amici malati o moribondi.

Ma “bello” è un aggettivo che non va più bene in questo dominio. Si sa, Bordini non scrive con un obbiettivo estetico pre-moderno. Nel suo post il bello non è più previsto come categoria o risorsa consolatoria. Scrive anche in un notevole articolo uscito su “L’Unità”, e qui inserito: «i poeti non possono salvare il mondo perché il mondo se ne accorgerà solo dopo».

A me fa piacere concludere con altri versi la modesta e non esaustiva ricognizione di un’opera singolare, dalla voce inconfondibile, rimandando inoltre il lettore a un altro scritto, altrettanto unico e pregevole, Memorie di un rivoluzionario timido, non un romanzo, ma un’opera autobiografica in cui la centralità del frammento e dell’ellissi, comporterebbe nell’Italia di oggi un ostacolo alla pubblicazione:

Oggi ho provato le nuove
sensazioni:
camminare
guardare.
sentire il corpo separato
dal resto del mondo
come una caldarrosta

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