Il poeta dei luoghi e la prossimità con la ferita: Marco Bini e Melania Panico

In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti della stessa generazione. Nelle vene della scrittura di Marco Bini scorre la «circospezione», «intesa come l’atto di portare lo sguardo attorno», la condizione che «permette di accedere all’introspezione e di ottenere, nell’incontro tra queste due dimensioni, una reazione che si fa scrittura». Si definisce dunque «poeta dei luoghi», non del territorio – scopriremo il perché.
Melania Panico sente forte, oltre al bisogno dell’autenticità, la tendenza a «trovare una prossimità con la ferita, attraversarla, prendere forza da questa». Da lì è nato il suo ultimo libro. Anche se, rispetto all’oscurità, confessa di dimenticare in fretta: «Forse così ho imparato a scrivere dell’oscurità: dimenticando».
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultima opera poetica edita di Marco Bini è New Jersey (Interno Poesia 2020); quella di Melania Panico è Non ero preparata (La Vita Felice 2018).

 

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: MARCO BINI (1984)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Non potrei scrivere un verso senza lasciarmi attraversare da tutti gli stimoli sensoriali e memoriali dei miei luoghi tra la via Emilia e l’Appennino, con i quali, per biografia e attitudine, coltivo una relazione forte. E, come tutti i rapporti intensi, è sostanzialmente irrisolto e molteplice, forse destinato a non risolversi mai per davvero. Eppure è da lì che viene il mio “carburante” poetico, quello che mi scorre dentro, anche quando sembro scrivere di tutt’altro. Nelle mie poesie trovano spazio storie e geografie spesso distanti dal qui e ora, ma, ogni volta che mi capita di leggerle, per me emanano comunque l’odore misto di asfalto e terra bagnati di certe mie mattine e vibrano dell’atmosfera generosa che il cielo emiliano, sebbene piuttosto inquinato, è in grado di regalare. La circospezione, intesa come l’atto di portare lo sguardo attorno, è la condizione che mi permette di accedere all’introspezione e di ottenere, nell’incontro tra queste due dimensioni, una reazione che si fa scrittura.
Però non sono mai stato né credo di essere un “poeta del territorio”, semmai potrei – o meglio vorrei – essere un “poeta dei luoghi”, il che è abbastanza diverso. Del “territorio” si scrive solo da innamorati o da perfettamente integrati; invece per scrivere dei “luoghi” occorre esservi in conflitto permanente, venerarli nella memoria e scontrarvisi nel quotidiano, amarli e sentirsene respinti al punto da volerli fare a pezzi, farli implodere ed esplodere, trasfigurarli. Ed è esattamente così per me: con i miei luoghi ho un rapporto difficile e complesso, che non so nominare direttamente. E forse è per questo che lo faccio in poesia. Nascere, crescere, vivere in provincia, ma in una provincia che non ha attributi precisi oggi ed è definita soprattutto per sottrazione – non è città, non è campagna, non è periferia, non è suburbia, non è quasi più “paese” – ha formato nettamente il mio modo di vedere il mondo e mi ha reso attento agli stupori minimi e alle zone indefinite dello spazio e del tempo, un mondo di segnali a cui pochi fanno caso e dai quali mi sento attraversato continuamente.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Come sfondo dello schermo del mio smartphone ho una foto che mi ha mandato un amico. Non ricordo purtroppo l’autore, ma quando l’ho vista la prima volta ho capito che ritraeva una scena proveniente direttamente dalla mia immaginazione: tre uomini camminano nella neve mentre alle loro spalle un fuoco d’artificio illumina prodigiosamente la scena. Certamente lo hanno innescato loro, ma tutto ciò che vediamo è una distesa di neve con i tre uomini che si allontanano. Mi è sembrata una bella metafora per la poesia: un tracciante lanciato in aria per manifestare il proprio esserci, per essere avvistati e allo stesso tempo illuminare, seppur in modo effimero, il buio attorno. Per me è il mondo stesso a essere oscuro, ma non per la presenza del male o per la decadenza dei tempi – che, stando ai discorsi degli uomini di ogni epoca, pare stiano decadendo da sempre. Ma perché viviamo brancolando in questo buio, privi di istruzioni su noi stessi, sugli altri, sul mistero del nostro esserci, del nostro sentire. Viviamo sentendo le cose, ma senza vederle con chiarezza, proprio come se fossero immerse nel buio: ombre dai contorni tutt’altro che chiari, che si segnalano solo in modo parziale. Ci sono però anche occasioni che squarciano questo buio e credo che la bellezza di cui, nonostante tutto, siamo capaci ne crei molte, di queste occasioni. Nella mia vita questo ruolo lo gioca la poesia: mi serve per fare almeno un barlume di luce su ciò che mi circonda, anche se ciò che finalmente posso vedere si dà in modi comunque indeterminati, proprio come la grande distesa di neve in quella foto. “La poesia è la miglior scuola di insicurezza che ci sia”, diceva Josif Brodskij; ma scrivere per me è anche un modo per tentare di battere la finitezza, ingannare i limiti, esistere un po’ oltre me stesso.
Mi concedo un breve off-topic prendendo spunto dalla tua domanda. Che bello il riferimento a quella canzone di Johnny Cash: pensare che si tratta di una cover che incise e inserì in uno dei suoi ultimi, impressionanti dischi di rifacimenti di brani di altri. Quella canzone era stata pubblicata appena un anno prima da Bonnie Prince Billy, cantautore che aveva quasi quarant’anni in meno ed era all’epoca decisamente meno noto. E nonostante ciò, Cash ascoltò il pezzo, lo apprezzò e decise di inserirlo nel suo progetto. Un magnifico esempio di curiosità, dialogo tra le generazioni e generosità.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Forse tutti i poeti che amiamo di più li amiamo proprio perché ci fanno sentire così. Ho provato quei brividi, anche se a intensità e con sfumature differenti, leggendo Giovanni Giudici, Giorgio Caproni, Franco Fortini. Al di là dei singoli aspetti che apprezzo in ognuno – di Fortini l’agonismo, di Caproni la sentenziosità vertiginosa e di Giudici l’irriverenza – con loro il brivido deriva dall’impressione di trovarsi di fronte a qualcuno che ha avuto accesso a parti di verità che non riesco a immaginare del tutto, e che, nonostante ciò, continua a coltivare il dubbio e si lancia in un’inesausta ricerca. Pensiamo solo a cosa significa l’eredità di libri finali come Composita solvantur di Fortini e Res amissa di Caproni.
Riconnettendomi alla prima risposta, non posso non fare il nome di Seamus Heaney, forse il primo poeta che mi ha aiutato a tradurre in scrittura il rapporto con i miei luoghi e le mie memorie. Inoltre, per me rimane sempre un riferimento e una fonte di ispirazione nella ricerca di un punto di incontro tra speculazione ed emotività nella scrittura poetica. Adoro i suoi libri di poesie e allo stesso modo i suoi saggi, e, tralasciando per un attimo le differenze di provenienza, esperienze e talento, leggendolo sento davvero che il suo modo di fare e vivere la poesia è un modello al quale vorrei riuscire ad avvicinarmi più che posso.
C’è poi il brivido particolare che regala il confronto con i poeti del passato: quando mi imbatto in verità che hanno superato il tempo e stabiliscono con me, qui e ora, una connessione emotiva e umana tramite la poesia, provo commozione e gratitudine per l’esperienza. Un’onda che ti investe generandosi vicina a te è una cosa, ma una che lo fa prendendo una rincorsa di secoli se non millenni, ha tutt’altra intensità.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Mi piace molto la parte della frase che dice “un senso di ciò che è possibile”, perché riguarda la scoperta, l’abbattimento di confini e, credo, anche le infinite opportunità espressive della poesia. E proprio per seguire la traccia delle infinite libertà espressive, cito due poeti molto lontani e diversi, che ho letto con piacere e che mi hanno insegnato qualcosa sul “ senso di ciò che è possibile”.
Uno è Billy Collins. Non lo metterei nello stesso elenco di quelli che ho citato finora, ma leggerlo mi ha aperto orizzonti espressivi. I suoi racconti in versi e i suoi haiku occidentali, e quindi oversize, un voltaggio me l’hanno iniettato. Soprattutto mi hanno aiutato a riportare sempre la scrittura a qualcosa di concreto, familiare e affettivo, aiutandomi a stemperare una certa mia tendenza all’astrazione.
Su un versante completamente diverso, fu decisiva per me la scoperta di W.H. Auden: grande e indiscutibile come un classico, colto e allo stesso tempo a conoscenza del segreto della semplicità. Una specie di sintesi vivente e scrivente del Novecento. La prima lettura di Auden fu entusiasmante, e da allora spero a ogni nuova lettura di provare ancora quella sensazione. Per fortuna il mondo ha visto transitare tanti grandi poeti e le occasioni per prendere ancora la scossa non mancano. È una delle cose più belle dell’essere vivi!

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Gran Torino

Pelle e vernice e la storia del loro amore
di domenica mattina, un fiato appena d’aria
si infila e riflette sulla scocca il torace.

Un doppio opaco come perso in una nebbia.

Si fatica ad essere fieri quando esce il peggio
a Okinawa, in Corea o a MyLai nel Vietnam,
poi gli anni ingranano la quinta e sei ancora
un uomo, la sua casa, un vecchio ferro per difenderla
ed uno per correre nel sole e fermarsi all’imbrunire
fino all’ultimo bicchiere all’ora di chiusura.

Vivere da reduce è aspettare sotto il portico la sera
preservando questo francobollo di avamposto:
la rimessa, un giro di grondaia, sul confine la bandiera.

 

Viste le premesse, dovrei scegliere una poesia di ambientazione emiliana. Invece scelgo questa poesia che si intitola come il film di Clint Eastwood che l’ha ispirata. Credo mi appartenga un certo sguardo cinematografico e credo che il mio modo di vedere la realtà e di “scriverla” sia fatto davvero di movimenti di macchina, inquadrature, sequenze che al cinema devono moltissimo. In questo caso, addirittura, sono stati proprio la vicenda e il personaggio principale di un film a innescarmi. Qui c’è una specie di sovrapposizione tra me e il personaggio di Eastwood, che dà vita a un autoritratto “immaginato”, dove sono io a finire in una fantasia cinematografica e, allo stesso tempo, a guardare sullo schermo il me-personaggio in azione. Non è solo un omaggio a un film che mi piace, ma credo sia venuto fuori un testo che, attraverso la citazione, in parte mi racconta e in parte si prende gioco di me, in un ritratto irreale, ma non impossibile. E poi ci sono l’immaginario automobilistico, che appare in diverse altre mie poesie ambientate sulle mie strade emiliane, e la presenza della storia, un repertorio di nomi dalla forza evocativa enorme, la quarta dimensione di ogni istante che viviamo.

Bini (ph Mario Genevini)

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: MELANIA PANICO (1985)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Quello che mi chiedi non è facile da tradurre in parole. Credo che fare poesia sia essenzialmente questo: tradurre in parole i segni. Ma prima bisogna leggerli, i segni, bisogna imparare a scovarli, probabilmente aprendo meglio gli occhi. Quello che ho fatto negli ultimi anni è stato cercare di tenere gli occhi ben aperti e questo non vuol dire che non abbia avuto momenti in cui non faticavo, anzi. Comprendere implica uno sforzo non indifferente.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Ci sono stati momenti della mia vita in cui mi sono guardata allo specchio chiedendomi se quello che mi stava capitando fosse uno scherzo. Non era uno scherzo. Ma cos’è la vita se non imparare a riderne, non farne un dramma insomma, a volte crollare, certo, perdonarsi. Tu mi chiedi quale oscurità ma io dimentico in fretta. Forse così ho imparato a scrivere dell’oscurità: dimenticando.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Non posso non pensare a Dante. Se penso a qualcuno che mi fa sentire i brividi ogni volta che lo leggo penso a lui. Sono ossessionata dalla modernità dell’opera di questo autore così enigmatico e geniale, dalla sua lucidità, una poesia che si colloca oltre ogni tempo, formatrice in un certo senso. Penso alla centralità della parola come progetto filosofico vero e proprio, ad esempio quando nella Vita Nova scrive «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa», quasi una estensione al trascendente, una parola via via sempre più ‘indipendente’, senza compromessi. Potrei dire tante cose sul mio rapporto con questo autore che continua ad essere oscuro e nuovo anche se lo studio e leggo da anni e su cui ho lavorato lungamente; dico solo che dovremmo fare sempre i conti con i maestri veri prima di abbandonarci alla vanità di crederci ‘qualcuno’.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Che domanda difficile. Forse Pasolini ma credo di essere di parte. Mi ha sempre molto interessata il lavoro comparatistico di Pasolini, parlo della sua opera in generale e non solo della poesia. Quel cavillare in un certo senso tra mito e cultura di massa. Penso a La rabbia (1963) e alla gemma della poesia dedicata a Marilyn Monroe, l’idea di bellezza come fatalità che rallegra e uccide. Una poesia esemplare – nel contesto del documentario – nella misura in cui ci permette di portare in primo piano una caratteristica dell’opera di questo autore ovvero la riflessione sul mondo archetipico e perciò mitico. Credo che siamo lontani dall’idea di rimpianto e tuttavia questo non impedisce a Pasolini di esercitare una critica del mondo contemporaneo: «l’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite. / il darsi agli altri, / troppi allegri sguardi, che chiedono la loro pietà. / Sparì come una bianca ombra d’oro».

5.
Scegli una poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Scelgo una poesia da Non ero preparata, il mio ultimo libro uscito circa due anni fa. È un libro su cui ho lavorato alcuni anni e credo che il tema di fondo, oltre allo scavo continuo nella parola, sia quello della ricerca di autenticità. Per questo mi sono messa molto a nudo per cercare di non creare troppe barriere tra me e il lettore. In particolare credo che questa poesia rimarchi a pieno una mia tendenza: trovare una prossimità con la ferita, attraversarla, prendere forza da questa.

Calcola il ritorno
calcola gli sfoghi a perdere
la storia del nostro fallimento raccontata in un libro
calcola la clinica
il sangue prestato alla scienza la sala d’attesa
devi essere paziente
devi essere paziente
l’antidolorifico splendente
luci anche di notte artificio della calma
affrontare il giorno a occhi aperti la solitudine
gli spiragli nella solitudine il misticismo
calcola il respiro camminare a testa alta salire su un treno
non fuggire
calcola non fuggire confondersi con le cose
mai appassire

Panico (ph Matteo Anatrella)

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