Cristina Annino: “La poesia non ti obbliga a metterla al mondo”

Intervista a cura di Luigi Carotenuto 

 

Intervista alla poetessa Cristina Annino a cura di Luigi Carotenuto + 1 fotoCristina Annino, poeta, pittrice, autrice di racconti e saggi letterari, nasce ad Arezzo e attualmente risiede a Roma. Il suo primo libro, Non me lo dire, non posso crederci, è edito nel 1968 dalla casa editrice Tèchne di  Firenze, città nella quale si laurea in Lettere Moderne, con una tesi sul poeta peruviano César Vallejo. Nel 1977 esce Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli. Nel 1979 Boiter, con Forum, Forlì (romanzo). Nel 1980 Il Cane dei miracoli, Foggia, Bastogi. Nel 1984 L’udito cronico, in Nuovi Poeti Italiani n°3, a cura di Walter Siti, Torino, Einaudi. Del 1987 è Madrid, Corpo 10, Milano, libro al quale Giovanni Giudici assegnò il premio Russo  Pozzale nel 1989.  Quest’ultimo è un testo particolarmente significativo per l’autrice, che, sul suo sito, scrive: “questo libro ha il suo motore emotivo in quel sentimento iberico che già da prima costituiva una sorta di coscienza, memoria, attrazione geografico-spaziale. Negli anni anteriori all’87 ho avuto infatti rapporti culturali con varie città spagnole, soprattutto con Salamanca (Cattedra Poetica) e con Siviglia e Madrid. A quell’epoca Leopoldo María Panero mi tradusse una raccolta di poesie intitolata La Casa del loco su richiesta dell’editore madrileno Antonio Huerga, Edicione Libertarias. Alla fine degli anni ottanta abbandonai l’ambiente letterario per dedicarmi al secondo matrimonio. Dopo la vedovanza – 2000 – ripresi la mia attività, pubblicando Gemello Carnivoro, Faenza, 2002, con i Quaderni del circolo degli artisti. A seguito, Macrolotto, Canopo, Prato, in collaborazione con il pittore Ronaldo Fiesoli. All’inizio del 2008 Casa d’ Aquila, edito da Levante Editore, Bari. Proprio in quegli anni iniziai a dipingere ed ho all’attivo svariate mostre collettive e alcune personali”. Inoltre, ha pubblicato Magnificat (poesie 1969-2009), Puntoacapo editore, 2009; Chanson turca, Lietocolle, 2012. A breve uscirà il nuovo libro che include poesie e dipinti (www.anninocristina.it).

“La «chanson turca» è una canzone fuori dal coro, una parola barbara”, così scrive Walter Siti (Nuovi Argomenti n.60, Ottobre-Dicembre 2012) sul tuo nuovo libro edito per Lietocolle. Cosa ti ha indotto alla scelta di questo titolo e quanto conta per te la musica, citata in molti testi poetici, anche passati?

Una volta terminato il libro, per prima cosa ho pensato all’aggettivo dell’eventuale titolo. Hai presente la definizione “cose da turchi”? Ecco, questo attributo mi è sembrato giusto; quanto al sostantivo Chanson l’ho visto come un modo di presentare le varie situazioni poetiche, alleggerito però dall’ironia di un uso diciamo improprio del sostantivo. Per quanto riguarda la musica ritengo che questa sia inscindibile dal pensiero stesso, dalle parole. Ogni tipo di poesia ha la sua orchestrazione musicale, e credo che anche qui il timbro sia quello mio di sempre. Magari, là dove gli argomenti sono diversi rispetto a quelli dei libri precedenti (mi riferisco ai due poemetti), questi hanno semplicemente “ubbidito” ai suoni dei fatti e dei soggetti narranti. Giacché sono gli avvenimenti, ad avere una loro musica. Anche fuori dal terreno creativo, ciascuno di noi fa musica sempre, magari senza accorgersene, ed è tale linguaggio che lega la logica delle vicende, dentro una casa, in una città e nel mondo. Scrivere è rispettare il ritmo già esistente in tutto ciò di cui si parla. Musica e parola stanno tra loro come il significato sta al significante di un vocabolo. Io la vedo così. 

Nietzsche apre, in esergo, le due sezioni di Chanson turca. Credo tu possa condividere con il filosofo la critica di tutti i valori, il ruolo di demistificazione mi pare ben attivo nella tua opera, che ne pensi?

Nietzsche demistifica tutto, io no. Da lui si può ricevere qualsiasi tipo di stimolo emotivo, proprio perché il suo pensiero filosofico è un grande fiume dove possiamo immergerci secondo l’umore o la stagione: a mio parere questo è uno dei più grandi fascini che lo avvicinano a ogni generazione di lettori. Per quanto mi riguarda, più che valori, io ho delle certezze personali che non sono mai cambiate  nel corso della mia vita adulta. Per dirla seriamente: penso che i così detti valori cambino la loro valuta nel tempo e che inoltre Nietzsche sia un esempio magnifico di come essi possano essere contraddetti o manipolati proprio per il fatto di costituire delle categorie: morali, religiose, filosofiche o quant’altro. Credo insomma che i valori non aderiscano mai o poco alla condizione realmente umana. Cioè quando una qualsiasi misura reale diventa assoluta, perde ovviamente coscienza individuale, si codifica entrando nella sfera appunto filosofica, la quale può metterla in crisi. Ciò che dico mi avvicina in parte, ma mi allontana anche dal pensiero nicciano il quale dà importanza a ciò che demistifica capovolgendo o sostituendo un valore con un altro – che può essere anche il suo esatto contrario -, ma di pari assolutezza drammatica, cioè ne rigenera altri (per lo meno così mi sembra), mentre io tento di togliere credibilità a qualsiasi valore per sostituirlo con la forza individuale di certe mie convinzioni. In Nietzsche, inoltre, non riesco mai a trovare ironia.

Se “la vita è un affare che non copre le spese” (Schopenhauer), si può dire lo stesso della poesia?

Beh, la vita, se escludi il suicidio, devi viverla, in qualche modo; la poesia non ti obbliga a metterla al mondo. A meno che non si creda nell’idea bizzarra della vocazione. È una scelta personale, quindi ha il senso che tu le dai. Io credo che avrei potuto benissimo vivere senza scrivere perché ho un’incrollabile fiducia nella creatività umana. È questa che muove l’universo. Ognuno può esprimere il proprio potenziale creativo in mille modi. Se un individuo invece vede nella scrittura la sua unica realizzazione possibile, ed è coerente con se stesso, rendendosi cioè conto del tipo particolare di scommessa rappresentata dalla poesia, le spese dovranno risultargli obbligatoriamente coperte.

“La morte è la condizione inaccettabile dell’esistenza. Sono sempre stato ossessionato dalla morte. Dall’età di quattro anni, da quando ho saputo che dovevo morire, l’angoscia non mi ha più lasciato. E’ come se avessi capito d’un tratto che non c’era niente da fare per sfuggirle e che non c’era più nulla da fare nella vita. Scrivo anche per gridare la mia paura di morire, la mia umiliazione di morire”. Così Eugéne Ionesco affrontava il tema della morte, presente in maniera considerevole nella tua scrittura. Come vivi, da poeta e da essere umano la partita a scacchi con il signor Mortis?

Il pensiero della morte (solo quella mia, ovviamente) non mi ha mai disturbato. Direi, ecco, che la morte è un “valore”, proprio perché ha, generalmente, un peso differente, mutevole, durante gli anni della vita. Io l’ho sempre ritenuta una grossa fiche: nell’infanzia la vedevo come un eventuale fatto eroico o avventuroso, nell’adolescenza come una possibile soluzione ad avvenimenti sgradevoli. Ma sempre, considerandola come un oggetto da usare subito oppure mantenersi per gli anni a venire, quasi che lei dipendesse da me, che fosse insomma un cospicuo patrimonio da giocarmi o no. Anche oggi non penso alla morte per vecchiaia, non riesco a darle questo senso funebre. La sento talmente mia, così dentro al mio spirito, che è diventata un modo di esprimermi, di essere. Potrebbe cogliermi di sorpresa, potrebbe farlo subito, certo, ma conservo comunque l’idea che lei è rimasta una parte di me stessa infinitamente inferiore. Allo stesso modo che ritengo sia meno concluso di me un bambino. Infatti cosa rappresenta la morte confrontata con la vitalità di un individuo? In sé e per sé non è espressiva, non ha un pensiero suo, non ha evoluzione. Tutto sommato, il signor Mortis come ricordi tu, è, per me, solo un essere competitivo, non selettivo. Non stimandola, non riesco quindi neppure a temerla.

Quale il tuo rapporto con “la valle / mitologica dell’infanzia”?

L’infanzia, per ogni individuo, è il più temibile banco di prova. Uno se ne accorge solo dopo. Tutto si stabilisce in quegli anni. Io la ricordo appunto mitologica, come ho scritto. Voglio dire: essa è come una sfocata gigantografia del nostro futuro, per questo può accadere che il bambino si creda infelice nonostante la condizione di grazia in cui vive. Non è facile spiegarlo in alcun modo, ma parlando della mia infanzia, ammetto che all’epoca avvertivo fastidiosamente tutto il peso dell’ombra di ciò che sarei stata da grande, in più senza capire chiaramente niente né potermi staccare da questa doppiezza. Tale stato mi impediva insomma di “vivermi” liberamente come piccola. I “valori”, di cui parlavamo prima, cominciano a profilarsi in quella valle, quando ancora non riusciamo ad avere nessuna convinzione da opporre, perché non abbiamo una capacità di misura. Posso dire che per me l’infanzia è geologia allo stato puro, rappresenta la deriva del nostro continente-persona. Con gli anni poi si trasforma in una sorta di mitologia, ripeto, che il tempo fa sfumare progressivamente. Per questo la definisco come la più impura tra le varie tappe dell’evoluzione di un individuo. Sto forse esagerando, ma per me è stata esagerata e non posso esprimermi in altro modo.

“m’annoio come / il secolo, lentamente”, scrivi in un testo di Magnificat. Forse che, paradossalmente, la nostra epoca freneticamente produttiva, materialista, vive di una velocità statica, fagocitante, andando incontro a un’inesorabile quanto lenta fine?

Ho in più parti definito la noia come l’“otium dei poveri”, riferendomi al concetto alto che le attribuivano i latini. Non è che io abbia un carattere troppo clemente, però, così come non temo la morte, posso dire che amo la noia. È per me il punto massimo di concentrazione del pensiero; devo arrivare a sentirla profondamente, devo calarci dentro, per ottenere “una forza di spinta verso la superficie dell’acqua e respirare”. Allora vuol dire che sto per produrre qualcosa. Ammetto che le sono sempre vissuta accanto e da sempre con un senso refrigerante di libertà e di riposo (sinonimo di libertà o liberazione). Ciò non mi impedisce di accorgermi del mondo e di avere le mie certezze, appunto, anche su questo, ma la noia resta il grande catino di elaborazione dei miei dati percettivi. Tale stato psichico comporta inevitabilmente una notevole dose di solitudine, però spontanea; genera delle selezioni spinte, questo sì, ma senza compiacenze da “torre d’avorio”. Intendo dire che non mi estraneo da ciò che la realtà offre di buono, né mi sottraggo, ripeto, a ciò che mi fa sentire in opposizione con certi aspetti del mondo. Ossia, dal mio punto di vista, la noia è l’esatto contrario della distrazione, potrei definirla come la rielaborazione di quei dati cui alludevo, e che proprio grazie a lei si formulano. Inoltre – e termino -, oltre a permettermi una concentrazione assoluta, mi pone continuamente di fronte a me stessa, dandomi la misura di quel che sono e la distanza da ciò che mi circonda. Io la chiamerei, ecco, la mia genesi e la mia difesa.

 

 

 

 

 

 

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