«Questo mare oggi è un aggettivo/ possessivo, è di nessun altro che mio, c’è/ il mio sangue sugli scogli, nel legno/ delle scale, c’è il mio urlo disabitato». Versi scelti per introdurre “La Mar” di Francesco Accattoli, pubblicato da “Amos Edizioni”, nella collana “A27 poesia”, a cura di Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter e Giovanni Turra. Leggendo lambiamo parole che «hanno il passo delle maree», avanziamo sulla rotta che «chiama oltre il promontorio», verso «Acqua lustrale, varco e redenzione, latitudine di tutti», dentro un linguaggio, potremmo dire un’ubicazione («un modo di espiare»), fondamento dell’aprirsi al mondo (dalla riva), che diviene luogo di dialogo meditativo.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La Mar”?
Ho sempre amato il mare, mi sono trovato sempre a mio agio nell’elemento. Da qualche anno però ho la fortuna di abitare a Sirolo, nelle Marche, una piccola cittadina marinara alle pendici del Monte Conero. Una zona meravigliosa, dove il contatto quotidiano con la natura diventa un’esperienza totalizzante, i ritmi, specialmente d’inverno, si fanno più lenti, quasi rarefatti, il suono del mare si fa più nitido fuori dalla confusione del turismo estivo, diventa un interlocutore sempre presente. Vivere il mare, in tutti i suoi cicli e le sue stagioni, stare a contatto con i suoi battiti, i suoi respiri, ha sicuramente avuto un ruolo decisivo nella mia esperienza di scrittura. A tutto ciò, si aggiunga la pratica del surf, che da quattro anni mi ha letteralmente rapito il cuore, i sogni, le forze e i progetti di vita: stare in mezzo alle onde, anche quando fa freddissimo e il cielo è di piombo e magari piove, essere parte di quel movimento, di quell’energia ha un fascino intimo e inebriante. La ricerca delle onde mi ha portato a viaggiare, ho vissuto per diversi mesi a Fuerteventura e ho potuto sperimentare l’oceano, sono stato in Francia, in Cantabria e nei Paesi Baschi. Non è un caso che da questa esperienza, di vita e di scrittura, sia nato il mio progetto dottorale che sto per concludere presso l’Universidad de Málaga, con una tesi proprio sull’esperienza del mare nella poesia italiana e spagnola del Novecento.
La poesia può giovare a comprendere (specie in questo tempo odierno, buio e refrattario all’ascolto) “L’inverno a guardare il cielo.”?
È un verso difficile da spiegare, ci sono gesti che s’imparano nella solitudine, nel tentativo di comprendersi come parte di un ecosistema che ha le sue leggi: Jules Michelet, nel suo straordinario saggio intitolato La mer diceva più o meno così «se noi abbiamo bisogno del mare, il mare può fare benissimo a meno di noi». Vivere in simbiosi col proprio ambiente, cercare di leggerne i segni, i venti, le correnti, i movimenti delle mareggiate, ha indubbiamente una funzione catartica. Non è solo mera indagine metereologica, è ostinazione nel percepirsi elemento tra elementi. La poesia, per la sua carica polisemica e la sua pratica intransigente, è una dichiarazione di coraggio, la traduzione in parole della volontà di esserci, di esistere, prima di tutto.
In che modo (tua) la vita diventa linguaggio?
Da sempre sono convinto che non possa esserci poesia senza un vissuto. Per quanto possiamo sforzarci di barare, con gli altri e con noi stessi, persino con la parola, affidando la nostra totale fiducia allo studio, alle volte enciclopedico, della tradizione, non possiamo ritenerci immuni allo smascheramento a cui ci costringe la poesia. Ognuno di noi ha tempi metabolici differenti, ritmi di scrittura non facilmente prevedibili, tuttavia sappiamo benissimo che la conditio sine qua non sta nella disponibilità allo stupore, nella resa che maturiamo nei confronti dell’alterità. Spesso vedo associate alla poesia parole come crepa, taglio, fessura: immagini che non mi appartengono, esiste, a mio avviso, lo stupore, il dettaglio che diventa cosmo, l’ascolto e la disponibilità ad accogliere le fitte trame di cui si compone il reale.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Spero, almeno, di no. Non vorrei che la poesia costituisca una zona liminare oltre la quale non si possa pensare ad una verticalità, che non è per forza atto di fede, ma una costante tensione, e che questa tensione possa anche sfuggirci di mano, permettendoci di sorprendere noi stessi, di disarmarci. Leggo sempre più poesia delle cose, lunghi monologhi di oggetti, di azioni, alle volte banalmente quotidiane, in cui non si avverte l’esigenza dello slancio, volutamente legate a una orizzontalità di cui, francamente, non sento il bisogno. Vi è un mondo attorno a noi fatto di linguaggi, di misteri, che tali sono ovviamente solo per noi, che non per forza sono espressione di entità superiori, ma che ugualmente ci spingono a confrontarci con unità di misura più grandi di noi. In questo senso, il mare è da sempre nemico all’essere umano, perché lo costringe alla vertigine della dismisura.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
Bellissima domanda, a cui purtroppo non so rispondere con precisione, perché sono ancora alla ricerca di una risposta. Non sono mai stato un amante della rima o della forma codificata, tuttavia credo nella disciplina della scrittura. Se, dunque, mi fosse concesso di interpretare il termine «forma» come attitudine alla parola poetica, come serietà e rigore nei confronti della scrittura, allora posso pensarla come una pratica della «verità», e cioè come una resa dei conti nei confronti delle tante, troppe, sovrastrutture del vivere quotidiano. Per scrivere poesia occorre essere disponibili alla sottrazione, a limare, togliendo continuamente, stando attenti però a non rimanere a mani vuote.
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Ascoltare, osservare, sperimentare la vita, le relazioni, accumulare esperienze. Sono passi che dobbiamo fare in prima persona, nessun libro può farlo al posto nostro.
Pensando ai tuoi versi “La morte è un’alba ritratta/ nel cavo delle meduse.”, ti chiedo: qual è stato, anche da lettore, l’insegnamento sostanziale ricevuto (ad oggi) dalla poesia?
Altro verso difficilissimo, anche per me. Fino a qualche anno fa, vivevo con estremo disagio lo scrivere poesia. Ho iniziato molto presto, a sedici anni credo, a venticinque ho pubblicato la mia prima raccolta, con Stamperia dell’Arancio. Non avevo gli strumenti emotivi per comprendere quella rivoluzione che accade nella gestazione della scrittura poetica. Oggi la vivo in maniera molto più serena, accettandone i contraccolpi, i mutismi, le asincronie con la vita quotidiana, perché leggere poesia, e a maggior ragione scrivere poesia, ci pone di fronte a un processo di ricerca, scomodo nel suo tracciare percorsi non sempre prevedibili e confortevoli.
Riporteresti (spiegandoci le ragioni) una poesia (di altri autori) nella quale sei solito trovare “rifugio”?
Da marchigiano non posso non pensare a Leopardi, quello del ciclo di Aspasia soprattutto. Mi sono cari gli Strumenti Umani di Sereni, ma anche Sbarbaro (Taci, anima stanca di godere mi sconvolge ogni volta), Alfonso Gatto, José Hierro. Ce ne sarebbero tantissimi. Una menzione speciale la voglio riservare a Biagio Marin, poeta gradese di cui ho letto tantissimo e che mi ha letteralmente stupito per la capacità di essere «verticale» appunto, con un respiro in realtà brevissimo e via via sempre più iconico.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una poesia dal tuo libro “La Mar” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Cari lettori, parlare del proprio lavoro è sempre difficile, è una questione di pudore. Credo di aver già fatto capire da che cosa sia nato La Mar, raccolta che reca, appunto, un titolo in lingua spagnola, perché lo spagnolo è l’unica lingua che permette l’uso di entrambi i generi per riferirsi al mare: al maschile, per nominarlo in maniera ufficiale, e al femminile, quando si vuole sottolineare la dimensione affettiva che ci lega a lui. Ecco, La Mar nasce da un atto di amore nei confronti del mare, ma attenzione, non vi troverete gli azzurri delle cartoline: è un mare visto da dentro il mare, non dalla costa, spesso fuori stagione balneare, quando per strada non c’è nessuno. Fuorché il mare.
L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.
Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.
*
Nota biobibliografica Francesco Accattoli (Ancona, 1977) è docente di materie letterarie e latino nei licei. In poesia ha pubblicato Come acqua che riposa… (Stamperia dell’Arancio, 2002), Un tramonto sommario (FaraEditore, 2007), La neve nel bicchiere (FaraEditore, 2011), Lunga un anno (Sigismundus Edizioni, 2013) una plaquette accompagnata da sei opere della pittrice Linda Carrara. Nel 2015 viene invitato presso l’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia a presentare lo spettacolo Lunga un anno poetry set, una videoperfomance tratta dall’omonimo libro che vede la collaborazione del regista Filippo Pesaresi e del chitarrista Daniele Cecconi. Traduttore dallo spagnolo, ha curato la versione italiana del libro Las alas de Angela del poeta argentino Alejandro Pidello (Vydia Editore, 2017). È dottorando in Linguistica, letteratura e traduzione presso l’Università di Malaga. Dal 2014 organizza il festival di poesia Sirolopoesia.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.06.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).