Carla Saracino e Mary Barbara Tolusso: potrei definirle poetesse. Donne che scrivono. Potrei dire anche: poetesse di generazioni x e y. Oppure poetesse di generazioni x e y, l’una originaria della Puglia, l’altra del Friuli Venezia Giulia. Volendo esisterebbero altre mille categorizzazioni applicabili su queste due autrici; tuttavia non ne farò uso. Attualmente, l’utilizzo di riferimenti anagrafici, geografici e di genere è ampiamente sfruttato non solo per redigere antologie che devono pur possedere qualche criterio, ma anche per definire e catalogare le esperienze espressive del singolo poeta, quando invece tutti noi dobbiamo essere consapevoli che l’esperienza poetica di un singolo è fondamentalmente universale, amorfa, e senza tempo, tranne che per un ragionevole appiglio alla contemporaneità la cui assenza renderebbe l’autore anacronistico. Saracino e Tolusso, è vero, sono poetesse, ma non scrivono da donne e nemmeno imitando gli uomini; il sentimentalismo e l’afflato consolatorio ormai diffuso nella letteratura di entrambi i generi, non si riscontra nelle loro opere.
Ad una prima lettura, possiamo riconoscere tra le due autrici più similitudini di quelle che potremmo immaginare; sia Tolusso che Saracino trattano la realtà come una materia viva, magmatica, in continuo cambiamento, ma anche dipendente nel suo mutare da un passato. Nel caso della prima, un passato temporale – l’adolescenza, l’infanzia, le esperienze di vita trascorse – che assume una connotazione di sogno disincantato, non nostalgico ma presente, come unica salvezza da una società sterilmente e banalmente cresciuta. Nella seconda, invece, l’ancora del passato è più geografica, familiare; in Saracino la vitalità rurale e fisica espressa è costantemente velata da un presagio non tanto di morte, ma più di fine vita, di logorarsi degli oggetti, del corpo, dell’ambiente, in un ciclo spontaneo e naturale, che non ha e non ammette soluzioni.
Al contrario, la morte in Tolusso, sempre presente come essenza delle cose toccate dalla sua poesia, ha una rassegnazione lucida, di filo reciso, una impossibilità terribile di tornare indietro.
Una poesia fredda non sarebbe poesia se negasse l’accesso ad una sensibilità che non è struggimento ma comprensione profonda del mondo e dolcezza più profonda della superficie. Così come il sentimento non è poesia se non conserva il freddo distacco delle forme. Mary Barbara Tolusso ci rinfaccia nei suoi scritti un amore che è più dell’amore, una fine che è più della fine, in un glaciale involucro di ironia e ispirazione proustiana, in un quadro graffiato dalla lama del suo lessico.
Saracino, possiamo dire, è una visionaria concreta; Tolusso è una concreta visionaria. Mi spiego meglio: mentre Saracino parte da una visione e la concretizza in una serie di azioni e immagini quotidiane, Tolusso parte da oggetti e immagini di natura terrena e quotidiana per sviluppare una visione.
Non solo gli ambienti esterni, ma anche le case, i negozi, i luoghi chiusi sono un fulcro importante nelle opere di Carla Saracino. Si potrebbe pensare ad un film, in cui ogni scena possiede un significato più esplicito o più nascosto, dove i dialoghi sono potenti ma pacati; si tratta di una poesia apparentemente sensoriale – i colori, gli odori, i suoni – in realtà molto cerebrale, riflessiva, quasi votata alla continua analisi, che l’autrice utilizza per stanare la leggerezza logica che sta sotto la pesantezza del pensiero.
Talvolta, non avere certezze è un privilegio. Non essere toccati dalla retorica può essere un sollievo.
Non vivere sotto la dittatura della rassicurazione può essere una prerogativa dell’arte.
Forse di questo abbiamo bisogno, di una poesia senza sicurezza?
Cercare il cuore del secolo nelle case
abbandonate del materano, un pomeriggio,
mentre l’erba stipa sotto terra l’annuncio
del tempo che non vedrai.
Essere nella fiamma del camino d’un albergo
senza bellezza
e fumare il gelo sulle labbra alla fastidiosa cerimonia
della cena.
Essere in tanti dentro se stessi, una volta sola negli altri.
*
Riuscire a intendere nel neon
d’una vetrina di oggetti kitsch
il simulacro delle proprie idee
e costruirlo sommamente lì,
nell’astuzia d’un semi–commercio.
Sentire che in una sera tutte le altre
non è il passato che le richiama
ma il presente.
Avere come esempio la pagina
nei suoi universi per idolatri
scorrere l’indice sul tratto nero
e fiutare del segno il mantello
che piantò una mano materna
nell’orto della fine dell’infanzia.
Non saper decidere se vivere di
stenti o morire per la fame. E in tutto
questo, far passare della vita
il primo capoverso su un rigo contrario.
Finire sconsideratamente a cenare
in un paese.
Carla Saracino, Il Chiarore (Lietocolle, 2013)
—
La notte fila liscia tranne
quelle sere che si cede al ricordo
che si dovrà morire su un letto come questo.
Allora penso a quello che dicono gli stupidi
che se c’è la morte io non ci sono. Ma
dal nulla nasce la paura, quando non vedi
non senti non pensi. Nessuna religione aiuterà
il danno dei vivi, feroce o silenziosa
nessuno potrà sottrarsi alla rovina. Dico al mio corpo
animale di stare fermo, di non pensare. Nulla
è più terribile più vero di questo tempo del ritardo, non c’è
luce per gli indifferenti, tutto l’amore non dato,
il tempo sprecato, niente che possa
destarmi dal sogno, io
dove sono,
dovrei alzarmi andare a bere in compagnia, cercarti e dire:
Tu per me sei pelle, una morte anticipata,
insepolta, coagulata fino all’erezione.
*
Molti se ne sono andati, singoli individui,
famiglie intere, generazioni di tetti a punta
che si spingono. In sogno li dipingo
alla Van Dick, con una luna poco
lunare. Tubature, soppalchi,
pareti non sono più che rammendi.
Lo spazio dà rilievo al soggetto,
una civetteria dell’epoca, una fine
di diaboliche impertinenze.
Le stagioni morte diventano eterne
e durano sempre più a lungo. Vanno
ripetendo che hanno avuto un cuore
con gli occhi fissi al sogno. Ma la vita
mica è una questione di cuore.
Mary Barbara Tolusso, Disturbi del desiderio (Stampa2009, 2018)