l’Autore racconta
La Sindrome di Hugh Grant è un romanzo generazionale che fa ridere, emozionare e riflettere; racconta i quarantenni di oggi, ognuno infelice a modo proprio. Ci sono quelli sposati che tradiscono nell’ora del calcetto, i separati senza più un euro in tasca, quelli che si contendono l’affido dei figli, quelli in carriera che vengono presi a calci nel sedere dai sessantenni che non mollano. In più, ognuno di questi “quarantenni disperati” vive il confronto con se stesso, con le proprie aspettative, in un momento della vita nel quale ti rendi conto che la tua strada è ormai segnata e non puoi mandare tutto all’aria e ricominciare daccapo perché ciò che hai, o ciò che sei, non ti soddisfa. Thomas Rimini è uno di questi. Uno che potrebbe essere interpretato da Hugh Grant in una di quelle commedie che l’hanno reso famoso.
Thomas vive una profonda crisi personale nonostante sia una persona di successo e abbia tutto quello che in apparenza potrebbe renderlo un uomo risolto. Si sente schiacciato dai tempi della vita, dal concetto di maturità che ai suoi occhi si avvicina al concetto di rinuncia, dall’obbligo delle decisioni da prendere, dal compromesso inevitabile che la società impone senza scrupoli omologando chiunque, anche chi non sa ancora cosa realmente vuole, e chiede solo un po’ di tempo in più.
Lascia una donna che in realtà ama e vola, neanche avesse la Delorean di Ritorno al Futuro, dieci anni indietro, come se fosse ancora in grado di divertirsi a una festa con vestiti anni 70, o di invischiarsi in superficiali conversazioni da locali alla moda e aperitivi. Ma non ha più il phisique du role, né la testa, e non ce la fa. Se ne accorge subito, al primo spritz, pur facendo finta di niente perché ormai ha preso la sua decisione e non può più tornare indietro. Ed è qui che inizia il suo vero dramma. Non sapere più chi è, che età ha, e cosa vuole sul serio dalla vita, mentre gli spuntano i peli nelle orecchie, i capelli si diradano e gli addominali perdono irrimediabilmente tono. Ritrova gli amici di sempre, ognuno intento a fallire a modo suo; un banker viveur che viene risucchiato nel tracollo dei mutui subprime, un intellettuale sfigato deluso dall’amore che gira sempre con un anello da fidanzamento in tasca, un padre al quale è stato sottratto dalla ex un figlio e che ha l’ossessione del running. E poi, in questo scenario decadente, ci sono le donne; quelle che si rifanno le tette dopo il divorzio, quelle che vivono con dieci gatti, quelle che si sentono protagoniste di Sex in the City e si ammazzano di tea alle cinque coalizzandosi contro quegli stronzi col pisello che proprio non le capiscono. L’insofferenza di Thomas cresce fino a diventare desiderio di fuga, e a cavallo di quella moto che si era comprato invece di pensare a cose più serie come a un matrimonio, parte per quel viaggio che non ha mai fatto, e che in realtà è un grande viaggio dentro di sè. E dentro di sè ritrova la sua verità, mettendosi in discussione, comprendendo i propri errori e le proprie fragilità, fino ad arrivare a capire che anche tornare indietro può essere un modo per andare avanti e, finalmente, crescere.
“Non capisco questa cosa dei quarantenni che girano con la sciarpetta al collo. Li vedevo anche quando stavo con Marcella, tutti impettiti e gonfi in organze sintetiche e lini misti acrilico, darsi un tono da protagonista del Grande Fratello e dire: «Io sono uno che le cose le dice in faccia, punto». Ma all’epoca, l’idea di farne parte era così distante da me che non mi preoccupava, e con Marcella si rideva a crepapelle quando questi bellimbusti ci tagliavano la strada. Senza parlare dei braccialetti Cruciani ai polsi, e delle sopracciglia pinzettate. C’è anche qualcuno che gira con le scarpe da calcio, sì, proprio quelle da tredici tacchetti, sotto l’abito scuro. Giuro che se questa moda prende piede – ecco, ho fatto la battuta – espatrio. Stamattina mi sono ricavato un’ora per me, ho delle commissioni da fare, e sono in tintoria a ritirare le camicie. Non ho ancora la lavatrice. La volevo mettere già da un po’, nella nicchia predisposta in bagno dall’architetto; sì, proprio lui, quel maledetto delle piastre a induzione. Ne ho viste quattro o cinque da Media World che venivano via con un pugno di euro, moderne che basta schiacciare un bottone e fanno tutto da sole. Ma ho ancora un blocco psicologico verso questo tipo d’indipendenza, verso i bianchi e i colorati, il concetto di centrifuga, e soprattutto non voglio passare la settimana con lo stendino che sgocciola sul rovere e l’odore del Deox per la casa.”