su l'estroverso
Auguste Rodin (1840-1917)



Si può viaggiare attraverso il dolore? I versi di Antonella ci prendono per mano e ci mostrano mille sfumature e significati, e altrettanti effetti sul corpo e sulla mente. Dolore che è gola strozzata, parola non detta, che è un paese e paesaggio da visitare soli e nudi gridando “ ricordi? noi c’eravamo, c’ero, sono qui, tu dove sei ora?”. Lacerazione per ciò che è stato fatto al corpo impresso in ogni sua cellula che sembra ricordarlo quasi fosse memoria olfattiva. L’utero in questi versi è protagonista, inizio di vita e di piacere e culla di morte, e diventa centro fisico del corpo femminile che racconta quasi con contrazioni percepibili la mancanza, il vuoto lasciato da chi se n’è andato. Succede a chi scrive, sente, ama e ricorda con la pancia.

Mancanza, non luogo, “eppure mi somigli” dice Antonella, quasi a riconoscersi vittima e carnefice di quel dolore, perché nel dolore di un amore mancato o perduto ci si mescola sempre, come fanno cuore e stomaco. Non c’è separazione, distinzione e identità. “ Senti anche tu ciò che sento io?”.

Dolore per una perdita, che trasforma un Luglio in un bagnato Ottobre, in cui la morte non ha numeri o mesi e arriva sempre inaspettata colpendo le parti molli, deboli, sorprendendoci alle spalle macchiandole di piaghe che rimarranno per sempre.

Il dolore è memoria, è passaggio e cura. La rabbia è mite. Un viaggio maturo, questo di Antonella, consapevole e compassionevole.

Alessandra Piccoli

 

IL PAESAGGIO DEL DOLORE
 
Cos’hai dentro dolore?
 
Che paese sei?
 
Che vedrei se ti sezionassi?
 
(Come hai fatto tu con la mia carcassa
lungo questi anni)
 
Hai cartilagini, ossa?
Fiumi di deserti?
Vagiti e trenodie?
 
Ti ricordo roboante
nell’aprirmi l’utero
per liberare la mia vita più bella.
 
Soffri
quando servi la vita?
 
Tu soffri.
 
Il tuo cilicio
è accompagnare la morte.
 
Arrivi a cavallo
di un respiro già in gola
 
sei in ogni frammento
di un corpo che marcisce
vivo
 
in ogni ventre
che si contrae
nella lacrima di un amore rotto.
 
Sei le mie spalle vuote
i miei occhi fissi sul vuoto
il vuoto fisso su di me.
 
Non c’è nulla dentro di te
sei un non luogo
 
ma sei in tutti.
 
Ti guardo
e mi somigli.
 
 
 
QUANDO NON VENNE
 
Quella notte che non venne
– si perse a un attimo da noi –
 
mi manca, di notte.
 
La sento piangere
accatastata sullo zucchero amaro
che hai lasciato lungo la strada:
 
è
rigata di impronte
così piene
la faccia del suo viso!
 
Quella notte non venne, quella notte.
 
Anche tu la senti sbattere
agli occhi?
 
Le senti le sue strida
sotto le unghie?
 
Io l’ho sepolta
sotto l’inverno
nel suono che fa gennaio
 
(il vento del gelo, le campane della neve).
 
E tu?
 
Tu che l’hai fermata
prima che ci legasse le bocche,
 
l’hai lasciata fuori?
 
O l’hai accudita,
bimba nel limbo dei non-nati.
 
Passale
di tanto in tanto
una mano gentile
sul dorso
dove porta i buchi dei baci caduti
degli amplessi strozzati.
 
È una notte monca
ma l’ho amata dal primo giorno.
 
Lei
è scolpita alla mia tempia.
 
 
 
IL CORPO DEL DOLORE

Ottobre scende bagnato.
 
Non era ottobre era luglio
 
ma la stagione che sfoglia
i pianti
arriva inaspettata
alle scapole
 
piegandole piagandole.
 
Sul cuscino della morte
nella tua casa di legno
 
– l’ultima –
 
cos’era rimasto di te?
 
Un corpo di morfina
le braccia macchiate
di umor rosso
(le vene erano stanche).
 
Era ancora
una madre
 
quel corpo tristemente composto?
 
Sì.

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