Nota di Daniela Musumeci
Giuseppe Cinà, architetto e urbanista, già professore associato di pianificazione urbanistica e territoriale presso il Politecnico di Torino, si è impegnato principalmente sui temi della conservazione del patrimonio, da quello dei centri storici a quello delle aree agricole periurbane, in Italia e all’estero.
La sua passione per la natura e per il patrimonio culturale, non solo della nostra terra ma dell’umanità tutta, ha, dunque, trovato sponda ed espressione alta in una creatività a tutto tondo, sia scientifica che artistica: progetto architettonico, salvaguardia di colture tradizionali e di paesaggi antichi si intrecciano con un linguaggio poetico attento ai proverbi contadini e al lessico dei lavori nei campi come ai sintagmi colti e rari, puntuale sempre e sempre musicale, curato nella metrica e nelle figure retoriche, che scorrono senza sforzo nei suoi versi liberi.
Il suo primo libro di poesie, A macchia e u jardinu (Manni editore, 2020), era dedicato ad un angolo della Riserva Naturale dello Zingaro, Sparauli: 33 poesie venivano a costituire un’unica narrazione a due voci, quella del poeta e l’altra di una vecchia contadina, che ripercorrevano gli ultimi 50 anni di storia dello Zingaro, troppo spesso devastato dal dolo di inaccettabili incendi. Era un libro doppio, in lingua e dialetto, scelta condivisa anche da altri compositori siciliani quali Nino De Vita o Maria Nivea Zagarella.
La nuova silloge, L’arbulu nostru (ed. La vita felice, 2022), premiata in alcuni concorsi letterari, fra cui il premio Città di Castello, narra dell’ulivo e della sua vicenda dai primordi ad oggi, anche stavolta con la traduzione a fronte. Sovviene, un altro titolo, L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo, romanzo che descrive un nostos alle radici, un po’ come queste liriche, e vien fatto di stabilire un’analogia fra le due piante, la selvatica e l’innestata, e le due parlate, siciliana e italiana. Ma quale delle due è l’originaria? E l’ispirazione nella mente e nel cuore di Cinà è nata prima in dialetto o in lingua?
Forse può esserci di aiuto ricordare una Noterella su una polemica Verga – Di Giovanni di Pasolini. In una conferenza del 1920, il Di Giovanni rimproverò a Verga di non aver scritto in dialetto I Malavoglia: a suo parere, avrebbe meglio ottemperato al suo dovere di “verista”. Verga ribatté non solo con la necessità di una diffusione nazionale dell’opera che ne esigeva comprensibilità, ma soprattutto notando come in realtà gli scrittori pensino per forza di cose in lingua colta e poi mentalmente traducano. E Pasolini conviene che il dialetto, nel suo impiego artistico (egli aveva pubblicato in friulano Poesie a Casarsa), è il risultato di una contaminazione fra culture diverse, quella superiore dello scrivente e quella inferiore del parlante.
Questa mescidazione ritroviamo anche nei componimenti di Cinà, come egli stesso riconosce nella sua nota conclusiva, in cui cita la definizione del dialetto di G. Bufalino, “eco di un vissuto di primitive gaiezze” e affida proprio all’arte il compito di salvaguardare i dialetti, altrimenti destinati a scomparire nella vulgata unica e omologante del pensiero unico globalizzato.
A questo punto vorrei guardare al contenuto del racconto, perché di un racconto che si sciorina nel tempo si tratta, come avverte il prefatore Velio Abati. La narrazione si sviluppa in quattro periodi o sezioni, che ricevono il titolo da alcuni versi in essi racchiusi.
Il primo periodo, Semu ancora vivi, damunni aiutu!, rimanda a un modo di dire popolare e largamente diffuso: la salvezza nella sopravvivenza ci può venire solo da un recupero dell’autenticità, ossia da un ritorno ai nodi originari dell’esistenza. Qui Cinà propone infatti due archetipi collettivi dell’ulivo: il ramoscello nel becco della colomba dopo il diluvio, dalla Genesi, e la rievocazione della costruzione del letto nuziale di Ulisse che consente a Penelope l’agnizione, mirabile traduzione siciliana del XXIII canto dell’Odissea (a partire dalla versione fornita in Omero, Odissea, traduzione a cura di Daniele Ventre, Mesogea, 2014).
Il secondo periodo, In campagna li filosofi abbunnavanu, raccoglie una serie di ritratti: i primi risalenti ancora alla tradizione greca e latina, come la storia dell’imputato di sacrilegio, trasposizione dell’Orazione di Lisia Per l’Olivo sacro, o la vittoria de L’atleta, o ancora il furto della statua di Aristeo perpetrato da Verre, con la bellissima parentesi dedicata ad Empedocle, descritto con i versi delle Purificazioni, in abito bianco e col capo cinto delle bende sacerdotali, mentre spiega ai suoi discepoli l’eterno ritorno dell’uguale, altra mirabile traduzione dei frammenti del Perì Fyseos. E si prosegue con storie di pastori, marinai, carrettieri, piccoli idilli leopardiani si direbbero, fino alla rievocazione dell’epopea dei Mille, vista con gli occhi di un misero bracciante, storie di poviri Cristi (cui Danilo Dolci aveva dedicato la prima radio libera nel ’68 all’indomani del terremoto nel Belice), jurnatari nel trappitu, emigrati, ma anche storie di archeologi e dottori in agraria che strepitano contraddicendosi circa la più giusta teoria degli innesti (come i corvi al capezzale di Pinocchio, altro capolavoro che del succoso, carnoso, ironico toscano fa lingua nazionale).
La terza parte rievoca in qualche modo le Georgiche virgiliane, poiché è dedicata alla cura dell’olivo: l’innesto, la potatura, la difesa dai parassiti come la mosca che se lo divora dall’interno; ma si apre anche uno spazio lirico di contemplazione, per la zagara dell’ulivo, così impalpabile e delicata, un biancu merlettu / ca si discerni mmenzu a li rami / nall’epifania di un pinzeru felici (qui troviamo, tra l’altro, quell’intreccio fra lessico colto e colloquiale, di cui più sopra si diceva) , o vibra uno slancio di gratitudine per la varietà generosa dei frutti, che regalano olii di diversa qualità e sapore o che ammasturanu li nostri tavulati con polpe e profumi speziati chi fannu ciavuru di sali e di sciroccu, nsalamoria o cunzati.
Cu amuranza, però, al momento della bacchiatura, bisogna lasciare sui rami le olive più alte, che se ne nutrano i tordi e l’upupa o si facciano lievito per asparagi e funci di ferla, liquirizia per le volpi. Ecco un nuovo tema, così vicino alla compassione buddista: la consapevolezza dell’impermanenza e dell’interdipendenza di ogni essere si trasforma in cura di ogni vivente, in empatia con gli animali, con i tordi e la volpe sì, ma anche con il cane morso a morte dalla vipera e con la stessa vipera schiacciata a bastonate dal pastore, con il pettirosso che rischia di incappare nella rete dei bacchiatori, con gli asini bendati che girano senza requie la mola del frantoio …
Empatia perduta ai giorni nostri, governati da avidità e arroganza, descritti nell’ultima parte, Nna li marchiggi di la favula ingannatura unni si joca na partita truccata: rappresaglie mafiose distruggono uliveti, incendi estivi sterminano boschi e nidi e tane, interessi venali fanno abbattere alberi centenari ma poco remunerativi, fino a quell’immagine muta e commovente d’un olivo spiantato e travasato in città per ornare l’ingresso d’un albergo, ritto immobile accanto ad un giovane bellissimo africano, sradicato anche lui e anche lui ritto immobile entro una ridicola divisa e scarpe troppo strette.
La raccolta si chiude senza una proposta alternativa. Essa resta, però, sottintesa fra le righe: pur presenti ai conflitti di oggi, senza sottrarci, proviamo a recuperare le radici della nostra umanità, la dolcezza e la crudezza ancestrale di una qualche piccola verità…