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L’incontro con la poesia di Fabrizio Cavallaro è stato folgorante. Ho sempre pensato infatti che con i consimili si provi una immediata empatia, ma non è solo questo, perché leggendo L’assedio mi sono visto calare in una realtà che sento e vivo e assaporo in prima persona e dunque l’immedesimazione è stata quasi completa, soprattutto nel condividere una sopravvivenza in barba a un calendario di crudeltà che infettano i sensi, giorno dopo giorno, distorcendo l’animo, il pensiero. Paragono Cavallaro a un pugilatore stanco, smagrito dal tempo inesorabile e da una profonda timidezza, che ha finito per cucirgli addosso, su una pelle ormai conciata di sentimenti remissivi, i vessilli ricamati dei suoi incontri, ex-voto tatuati su organi segreti. Non si cura moralmente delle sue azioni, se di morale si può parlare quando ci sono in ballo il vivere e il morire di se stessi:
Il bene non è in ciò che si esperisce,
non ciò che si congettura,
ma nelle forme del dire,
nelle norme del fare e del sentire.
Ma sembra sia la tecnica dell’approccio, pentagramma di poesia, ciò che interessa di più a Cavallaro ed è come se si cibasse – cibo squisito – di una antica debolezza, che allo stato dei fatti e soprattutto della sua poesia, è il punto di forza, la difesa appunto di un pugilatore che rifila a se stesso i colpi migliori. È di questa onnivora debolezza che sono pregne le poesie che vanno a comporre questo libro-confessione. Perché parlo di libro-confessione? Perché Cavallaro intende i suoi versi come dolorosi messaggi, contenenti “corpi immateriali” con i quali avere veri (che nella poesia hanno lo stesso valore dei “presunti”) rapporti amorosi:
La fissità glaciale
dei suoi capezzoli
furtivi nella maglia d’ospedale…
(dalla Premessa di Ignazio Gori)
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Sei poesie scelte da L’assedio di Fabrizio Cavallaro, Edizioni Novecento 2017
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Come se mi leggessi in tempo
reale, come se quel che vale
fosse solo l’oggi, il capitale
della carne invenduta
senza progressività,
senza memoria.
La sinfonia dei nostri abbracci
a volte stona, a volte ci azzecca.
Invidio alla vita la vita. L’essenza.
Tu ne scrivi l’intima coerenza,
i suoi lacci pieni di fraintesi.
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Il bene non è in ciò che si esperisce
non ciò che si congettura
ma nelle forme del dire
nelle norme del fare e del sentire.
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Fosti un’apparizione nella sera affollata
in quel pomeriggio d’incantamento
in cui avevo comprato un libro di Kavafis,
la mia anima era in cassa integrazione.
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Ti racconto di un’emergenza
nel territorio del mio desiderio
divenuto un parente troppo stretto,
un vicino seccante, rumoroso.
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a Salvo Basso
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Il ronzio del ventilatore
rimasto fisso in posizione
la costumanza del silenzio
questa rorida stanza
che accoglie vita
passato elementare,
normali usi e oggetti
di noi rimasti a ricordarti,
amico taciturno che gentilmente
lambisti il terreno della poesia.
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a Renato Pennisi
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Ti venivo a trovare,
sornione e tremante,
coi miei dattiloscritti ordinati
ormai perduti puramente
nel vento di negligenza,
al tuo studio all’angolo
di Viale XX Settembre –
eravamo coetanei, allora, anche
se un decennio ci divide, nella
suprema speranza alla poesia,
al consorzio dei liberi pensanti.
Quanta strada sotto i viali
di un tramonto liquido, asociale.
Al tempo, l’amico cowboy era
ancora tra noi, dolce
in lui la regola dell’abbandono,
del cavare oro dalla polvere.
L’assedio non ci aveva ancora
del tutto fatto suoi.
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Fabrizio Cavallaro vive e lavora a Catania, ha pubblicato alcune raccolte di versi, tra cui Latin lover (edizioni Prova d’Autore, collana Centovele, 2002, prefazione di Attilio Lolini) e Poesie d’amore per Clark Kent (Lietocollelibri 2004). È autore di testi teatrali in versi, tra cui Salomè (con note di Francesco Scarabicchi, Renzo Paris) e curatore, nel 2006 della raccolta di tributi a Dario Bellezza dal titolo L’arcano fascino dell’amore tradito (Giulio Perrone Editore). Ha curato, insieme ad Alessandro Fo, l’antologia poetica omaggio a Marilyn Monroe Umana, troppo umana (Aragno editore, 2016).