Luca Campana, “Fioriture invernali”, rigogliosi luoghi di incontro.

tre domande, tre poesie

“Il titolo che ho scelto per la raccolta riassume la mia idea e la mia esperienza della poesia: l’opera degli autori a me più cari, che si tratti di Leopardi o della Rosselli, di Scataglini o di Celan per citarne alcuni, mi ha sempre dato l’impressione di una meditata e allo stesso tempo istintiva, miracolosa elaborazione di un ossimoro, di qualcosa che accade “nonostante tutto”, e che anzi in quel “nonostante” si radica, che di esso finisce per nutrirsi. È dentro questo ossimoro che la poesia, sola, può tenersi: nel sentimento di un attrito paradossale e irriducibile che anima la vita e che precorre e percorre tutte le parole, come un taglio, che le separa e che, allo stesso tempo, le tiene unite”.

(dalla postfazione, scritta dall’autore)

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo Fioriture invernali?
Di solito le poesie nascono da un attrito, a volte da un urto, tra ciò che mi accade quotidianamente e quelli che definirei “i chiodi fissi”, le mie ossessioni, le idee ricorrenti che delimitano il mio immaginario, le stesse che ritornano in Fioriture invernali e che ne compongono la filigrana: il tempo ciclico e il ripetersi delle cose, la vita delle api, l’attesa dell’inverno, il prendersi cura di un mondo che si spegne, i fiori invernali… a queste si aggiungono poi le ossessioni letterarie: da sempre mi attrae chi riflette sulla Natura, sui luoghi di una sempre mutevole e possibile geografia umana, sugli slarghi fisici e mentali che l’uomo si ricava per esistere, e questo in ogni epoca, dalla physis dei Presocratici fino alla lingua di Paul Celan, un poeta della natura invernale, che si spezza e si ritrae, annichilita, di fronte all’assurdo e alla storia, o Luciano Cecchinel, cantore ruvido di un mondo marginale destinato a sparire, o Amelia Rosselli, la cui poesia mi fa pensare a una gabbia musicale miracolosa, a una serra millimetrica e sghemba, dove crescono fiori rari, obliqui e stravolti… in fondo una poesia, fin dal suo concepimento, non è che un luogo d’incontro con qualcuno.

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?
L’esperienza della neve è uno dei libri più belli di Francesco Scarabicchi, un poeta di cui amo la scrittura esatta ed essenziale, accurata come l’opera paziente di un artigiano, levigata fino a farsi trasparente, sottile e lieve, a volte tagliente; la poesia si intitola Lo sguardo e parla di qualcosa che è possibile trovare in ogni poesia:

“Guardo da questa altura della luce
chi sceglie l’altra via per risalire

verso le case bianche nella nebbia,
e i nomi, consonanti di vie brevi,

musiche che non so, stanze serene
di piccole tendine e sedie amiche,

cibo nei piatti pronto, fuoco acceso.
È qui che ho visto addormentarsi il tempo,

scegliere di una sera il suo giaciglio,
dedicarsi alla voce che non mente,

conquistare per sempre senza armi”.

Ma non posso fare a meno di citare un altro testo che da sempre mi accompagna: il quarto libro delle Georgiche, che Virgilio dedica alla vita delle api. Descrivendole, nella loro opera invisibile e infaticabile dei giorni estivi, il poeta mantovano le definisce venturaeque hiemis memores, “memori dell’inverno che sta per venire”, ed anche in queste sue parole, in questo cerchio in cui passato e futuro, memoria ed attesa, si toccano e quasi si equivalgono, è racchiuso uno sguardo che appartiene a ogni poeta.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, Fioriture invernali; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Vi propongo un piccolo “bestiario” in tre poesie e tre “bestie”: la prima è la volpe, che attraversa l’inverno e gli sopravvive, trovando nutrimento in un apparente deserto ghiacciato, lasciando dietro di sé segni di vita, tracce leggibili; la seconda è la lepre, che per fame si spinge su sentieri cifrati e ciclici, che i cani da caccia possono fiutare, facendo della lepre una preda; infine le api, vestali invernali, custodi del fuoco magico del glomere. Questa terza poesia è una delle prime che ho scritto: la mia intenzione, all’inizio, era comporre un libro che fosse interamente dedicato alle api, fatto di versi precisi ed essenziali come i favi dell’arnia; poi, nel tempo, sono entrati altri temi e altre esperienze, ma questa prima ispirazione è rimasta con me e ha contribuito a dare forma alla raccolta.

Odore di muschio umido, di resina,
di resa,
di decomposizione lenta
non lontana: dicembre
è il mese più clemente,
non genera che lapidi di gelo
da un cielo che scurisce
sempre prima, dalle vene seccate
terra dura.

Ultime genealogie residuali
merde magre di volpe,
grumi neri spolpati dagli acidi
nelle interiora dell’anno.

Le secca un’aria discontinua, le mantiene
come una desinenza indeclinata,
come un destino.


Appostarsi alla soglia di una luce
ancora intanata nei fossi, di una traccia
fiutata dai cani. Perché è ciclico
il seme degli astri, della lepre che passa
solo lì dov’è stata: la pancia piena d’erba,
di radici strappate alla notte, il pelo striato
infoltito dal freddo, lo stupore atterrito
allo sparo che penetra il fianco
e l’essere preda, per l’ultima volta,
di una fame che tutti affraterna.

Hanno addomi affilati dal freddo
nei quali scontano le fami quotidiane
e hanno gesti segreti
come i suoni intrecciati in un canto
le api invernali: più longeve
delle estive, estinte sorelle,
più leggere dei fuchi impigriti
banditi dall’arnia
scalano i favi mezzi vuoti
su salive rapprese di croco
e resine amare
o si stringono le une alle altre
invisibili al mondo
in un grappolo in cui custodire
il calore residuo
come un sole promesso
eclissato in un tempo d’esilio
e cenere spenta.

*

Luca Campana insegna letteratura italiana e latina nel liceo classico “Francesco Stabili” di Ascoli Piceno. È autore del saggio La stella che sorge dal mare. Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter (Il Poligrafo, 2019). Ha pubblicato la plaquette poetica Pietra pelle (Nervi, 2020) e la raccolta Fioriture invernali (InternoLibri, 2021 – premio “Luciana Notari” 2022, finalista dei premi “Prato Poesia” 2022 e “PontedilegnoPoesia” 2022).

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