Naxoslegge.: Alessandro Ceni, “la poesia è un profondo stato dell’esistere”.

«È numeri. Tutta la musica se ci rifletti. Due moltiplicato per due diviso per un mezzo fa due volte uno. Vibrazioni: quelle sono accordi. Uno più due più sei fa sette. Fai quel che vuoi giocando con le cifre. Scopri sempre questo uguale a quello, simmetria sotto il muro d’un cimitero». Per introdurre la nostra intervista, un passo scelto da “Ulisse” di James Joyce tradotto, per “Feltrinelli”, dal poeta e pittore fiorentino Alessandro Ceni (nella foto di Dino Ignani) che, lo scorso sabato 24 settembre 2022, nell’incantevole “Stazione ferroviaria di Taormina – Giardini Naxos”, è intervenuto per un incontro-conversazione che abbiamo avuto il piacere di condurre, presenti gli studenti del “Dams” di Messina, coordinati da Dario Tomasello. Ulisse, “l’epica del corpo umano”, così come definito da Joyce, non poteva mancare a “Naxoslegge”, Festival delle narrazioni, della lettura e del libro, ideato e diretto da Fulvia Toscano, quest’anno intitolato “Corpi”.

“Ci sono luoghi in cui/ neanche i proprietari/ osano entrare”, con i suoi versi per chiederle: dove, ad oggi, è stato condotto dalla poesia?
Francamente non credo che la poesia “conduca” da qualche parte o luogo: è un profondo stato dell’esistere e anche una via di conoscenza ma non finalizzata o per scelta. C’è un buio luminoso in cui la poesia ti cala.

“E la parola si disse/ e non aveva forma/ era/ senza.”, e, ancora, con altri versi dalla medesima poesia, “Spineto”, le chiedo: la forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
La forma, come in ogni e qualsiasi lavoro non meccanizzato (ancor più nell’arte), deve contenere, come dire, chimicamente, biologicamente, il senso dell’espressione, la sostanza. Che sia “verità” è da vedere.

Leggendola si sente “l’ostinazione di quell’ipnosi che è la poesia”, quel dubbio incantevole tra suono e senso. La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile? Uso invalicabile per indicare l’impossibile terreno, corporeo, o, se preferisce, “semplicemente”, l’impossibilità legata alla nostra condizione umana.
La poesia potrebbe essere il ponte. Ma non è cosa di cui il poeta è consapevole.

A cosa “serve” la poesia?
A nulla.

Immagini di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali darebbe?
Naturalmente un metodo non c’è. C’è una chiamata. A cui l’uomo risponde, destinalmente. A quel punto bisogna che si verifichi la fusione tra ispirazione e fabbricazione (del testo).

Sempre riferendoci all’incontro che l’ha vista protagonista, in Sicilia, insieme al suo “Ulisse” joyciano, domando: dopo averlo scelto, immaginiamo per affinità elettive, “ricorsi tematici”, o ci dica lei, in che modo si traduce un grande narratore? La traduzione letteraria è una scienza esatta? È possibile nella lingua di arrivo ricomporre un perfetto equivalente? Quante libertà (più o meno divergenti) ci si può concedere traducendo? Quante le traduzioni (o, se preferisce, le riscritture) possibili?
La premessa sostanziale per quanto concerne me è che sono un poeta prestato alla traduzione. Non sono esattamente un traduttore. Poi, la molla è l’amore per quell’autore, per la sua lingua, per quel testo. Nel caso dell’Ulisse, letto la prima volta in traduzione a vent’anni, è, naturalmente, il lavoro linguistico del dublinese. Certo che no, non è una scienza, è un’arte. Se va bene il traduttore è bravo se supera nella resa, secondo varie percentuali, il 50%, quindi nessuna equivalenza “perfetta”. Le libertà non esistono, perché si casca immediatamente nell’arbitrio; esistono scelte e possibilità che il testo originale stesso suggerisce, detta (bisogna saperle vedere e cogliere). Credo che le traduzioni di testi ormai classici conoscano un limite (e ogni traduzione nuova va stratificandosi sulla precedente) oltre il quale la traduzione diventa riscrittura personale, fino all’abuso e al capriccio (il testo originale diventa, alla rovescia, un’altra cosa).

“Nell’ineluttabile modalità dell’ineluttabile visualità”, oggi perché leggere l’Ulisse di Joyce?
Perché non leggerlo? È un libro, al di là del gusto del lettore, fondante, come, insisto, tutti i cosiddetti “classici” di ogni tempo.

Com’è noto, Joyce fornì (per il tramite dell’amico Frank Budgen) due definizioni dell’Ulisse: “un’Odissea moderna” e “l’epica del corpo umano”. Quali (e per quali ragioni) le sue definizioni?
A dir la verità, definizioni non ne ho e non ci ho mai pensato. Non sono né un critico letterario né, ancor meno, uno studioso dell’opera joyciana. Mi pare inoltre che quelle dell’autore, magari miscelandole, vadano a segno.

Per concludere, tornando al Ceni poeta, e per salutare i nostri lettori, la invito a scegliere una sua poesia e, nel contempo, la invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
No, scelga lei una poesia, andrà benissimo. E come si fa a raccontare l’accaduto? Giunge, avviene. Poi c’è il lavoro al tavolino.

 

quattro scelte per voi da Alessandro Ceni, Parlare chiuso. Tutte le poesie. A cura di Roberta Bertozzi, Stefano Guglielmin, Massimo Morasso, Daniele Piccini, Salvatore Ritrovato, Puntoacapo, 2012.

 

Frammento

E ci separerà la vita non la morte
rappresentata con tutte le misure umane
leghe metri o millimetri non bastano,
e io scalcio come il resto
di una palla di neve il cuore
in un piccolo cerchio magico
con confini di proteste e parole
disperse tra i peli di un dio.
E queste stanze hanno una spada,
rinchiudono un germe come un mastino alla catena,
moltitudine di battelli, boschi d’umanità dipinta,
gentlemen, sono le dodici parti di un cactus,
e mentre qui, moltiplicato tra uomini,
faccio andare il mondo
anche il sole scaglia
stecche da ombrelli per immagine di sé.

Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa

Ecco il buio spezzacuori
e i trampolieri dei suoi sentimenti
dove un no ancora pende
con una gamba levata
sopra l’amante in silenzio
che ode rompersi
i biscotti ed assentarsi l’istante:
sbriciolato sulla superficie
El così camminava le acque.

Da qualche parte in noi
ho sentito ridere,
gli alberi ambulare sulle punte
con le cime apparecchiate d’uccelli
spalancati nel buio,
dai bisbigli
la notte notte
e frusci e susurri e sospiri,
gli scheletri orribilmente incrinare
per le fattezze di un tempo e
sperare sotto il padre mare:
nell’ora dei sogni veritieri
El premendo e penetrando
s’avvolgeva la testa.

Ecco la bocca piena del loro amore splendente
spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,
finito il moto
per un secondo ancora
sbatte e colpisce la luna,
i satelliti s’inceppano
in una vecchia promessa
e insieme voltano ammainati i venti:
il tuo abbraccio la spezza
il tuo cuore è inadatto
la tua lingua incomprensibile,
El per non farla diventare
la sorprendeva.

Da qualche parte in noi
libero è uno spazio da alberi,
dove le cicogne precipitano stecchite
picchiando le carlinghe dei razzi
per far loro perder la testa,
le rotte piangendo s’invertono
passano il deposito
gli hangar in cui rulla e s’appronta Saturno
e non possono prender la Terra,
anzi, senz’erba neppure: sfiorate
le leve segrete
le albe uscivano
ronzando come dischi,
come da una ferita mal riparata
il sonno degli esseri esce in vapore,
ma era la Terra
che le partoriva
ed El col buco nero le divorava,
il finto pescatore assopito e andato di sotto
spezzando la lastra del mare.

Ecco se il gran Sole e se l’Immenso
non fossero
ma fosse soltanto
lo scampanìo delle mani
quando ci si saluta
e il missile puntato, la navicella degli atomi,
i motori che più non ci abbandonano
e vertici linee che incessanti proclamano
d’ossidiana e lapilli la fattura del cielo,
l’altro mare a specchio
d’anemoni e formine, e in
questo nostro scrutiamo
di quello la pomice lunata,
la semplice fosforescenza degli astronauti:
il lento verde e
fluitare dei canali,
limo che mai vide e capì
minacciato dai tonfi
e di tuffi dalle massicciate,
o suono delle parole che non si dissero,
i non visti abitatori
in ascolto del vento che mai spira,
picchettati per i capelli
come Lilliput
dalle alghe e dai molluschi,
desti ai bengala dell’Asino e del Bue
e al mugghio del Bambino contro le stanghe:
da qualche parte in noi,
i marziani immobili osservano
sostare il nuoto innamorato degli sgombri
e un lugubre sole accomiatarsi,
cerimonioso, temperando un legnetto,
coi volti pensosi trascolorano
ai nomi delle fidanzate terrestri,
lontane lontane e
rifiorite per loro nei loro cuori verdi:
El soffiò in un’onda di vetro
una sfera
perché anche quel poco soltanto non fosse.

Bianco

I morti si rivoltano alla morte,
babbo Inverno, nessuno rifiata
la tua controparola d’ordine, ma
l’alfabeto si consolida in grandine in
solida luce,
resta resta resta
solo tra i pattinatori sull’acqua che
molti soli cadono come monete, e
la velocità è un passo falso
in questo stato dell’anno:

il crac dal bosco e il
cane abbaia una sfera di stupore ai
falconi di rientro negli occhi, gli
insetti dormono in gocce d’ambra e
tutti i ripari sono anime, le
erbe gelate nello stomaco del bue
e il salmo della neve
dove amanti si stendono, non
sai più se per spirito o sorriso, hai
messo sonagli alla valanga
e lo stagno brina:

inciso in un dente d’aria,
graffiato dai battenti,
me che inquieto delimita
impianta e coltiva la foresta,
v’inchioda la mappa degli animali,
il cigno prima freddo sul
vassoio poi alto sulla palude e
ora, se ti voltassi, alla deriva sullo
specchio l’orma grossa del respiro trattenuto
o una figura lontanissima
con la capanna ancorata al fianco non
ricordo non ricordo non
ricordo il bisbiglio della notizia buca:

volano a forma di calice,
a lupi di stormi a passeri di branchi
e sibilano bibliche pietre nella corrente
e narrano e non affondano
per affrettarmi ad amare,
ultimo minuto che sfigura,
stridìo in vista, e
pensa disporre un pensiero
infrangere le leggi
entrare le porte
oscuramente.

II cielo della terra

Incominciando
col pane che piange nel laboratorio,
aureolato di ricordi, osservato nel sonno,
cotto in gennaio al fuoco della domanda
nel buio col buio da una tovaglia d’uomini col fulmine
all’attacco della foglia, al cuore dell’annuncio:
soltanto le donne gravide pendono in aprile.

Crediamo:
il mio occhio soffia sul taglio che
le braccia rimandavano al petto, è qualcosa
di più del fiume rincorso dal puma in sogno stanotte
o del cadavere lodato nelle frasche che si spaglia,
frizza contro la pioggia beccheggia tra
gli scogli, la pietra focaia la roccia.

In ultimo
tutte le tenebre pongono la testa all’ombra
di un loro unico piede, gli uomini in separate
doglie salgono scendendo un ponte,
verso una cuccia d’oro e una volontaria catena
di carta, l’orrore dell’amore, la perdita del nome,
e il mare sicuramente comincia e s’apre.

*

Alessandro Ceni (nella foto di Dino Ignani) – Alessandro Ceni (Firenze 1957) è un poeta, pittore e traduttore di classici anglo americani. Ha pubblicato (poesia): “I fiumi d’acqua viva”, Guanda, Milano 1980; “Il viaggio inaudito”, Tosadori, Riva del Garda 1981; “I fiumi”, Marcos y Marcos, Milano 1985; “La natura delle cose”, Jaca Book, Milano 1991; “Il pieno e il vuoto”, Marcos y Marcos 1995; “Tra il vento e l’acqua”, Edizioni della Meridiana, Firenze 2001; “Mattoni per l’altare del fuoco”, Jaca Book, Milano 2002; “La ricostruzione della casa”, Effigie, Milano 2012; “Parlare chiuso. Tuttelepoesie”, Puntoacapo editore, Novi Ligure 2012; “Combattimento ininterrotto”, Effige, Milano 2015; “Settantasette”, Helicon, Arezzo 2018. Saggistica: “La sopra-realtà di Tommaso Landolfi”, Cesati Editore, Firenze, 1986. Traduzioni: S.T. Coleridge, E.A. Poe, John Milton, Charles Brockden Brown, Oscar Wilde, R.L. Stevenson, Joseph Conrad, Djuna Barnes, Lewis Carroll, D.H. Lawrence, Edith Wharton, Herman Melville, Walt Whitman, Charles Dickens, James Joyce.

 

(la versione ridotta di questo articolo a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 24.09.2022, pagina Cultura).

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