“Poesie” di August Strindberg (Elliot). La curatrice, Daniela Marcheschi: “poesia che torna a essere discorso del mondo e sul mondo che può porre un argine a tanta deriva”.

«Spirito scettico, che eternamente domanda,/ pensiero che ferve,/ sentimento che arde,/ non vi ferma il lavoro del giorno,/ non vi spengono le coltrici del sonno». Versi di August Strindberg, scelti per introdurre il volume “Poesie”, la più ampia scelta di testi poetici mai pubblicata in Italia, (Elliot, marchio di Lit Edizioni), a cura di Daniela Marcheschi. Oltreché con la poesia, misurandosi con i generi più disparati, quali prosa, teatro, saggistica, Strindberg rimane l’autore principale della Svezia, una delle figure eminenti della letteratura europea, delle più colte e geniali, colui per il quale la letteratura è, congiuntamente, espressione e conoscenza, dunque, come chiarisce la Marcheschi (docente in università straniere e italiane di Letteratura e Antropologia delle Arti; autrice di molti saggi su poesia e narrativa italiana e scandinava) tensione etica perché «nel suo campo di battaglia si incontrano e scontrano modi e aspetti molteplici dell’esperienza umana, si formulano delle ipotesi di mondo di fronte a cui la soggettività dell’autore è sempre responsabile».                                  

Con “Poesie” di August Strindberg, inizio col chiedere: perché (oggi), dalla voce della curatrice, leggere questo libro? Cosa può la poesia “contro” la dilagante incapacità di ascolto e cognizione?

Perché lo svedese Strindberg, da poeta (autore di un verso moderno che, pur essendo riconoscibile come tale, si alterni alla prosa o sia più intonato verso la prosa) e drammaturgo quale è stato, ha intessuto un dialogo critico profondo con la poesia di Baudelaire e di altri protagonisti del decadentismo francese e non solo. Nella ricchezza e multiformità della sua cultura, dei suoi saperi (dalla pittura alla chimica, dalla botanica alle scienze naturali in genere, dalla fotografia all’ottica, dalla filosofia alla psicologia e alle lingue ecc.), sapeva che il linguaggio umano non può essere separato dalle sue logiche referenziali e ha compreso sul nascere e “riparato” alcune fragilità formali della letteratura del proprio tempo, e anche di una parte di essa sviluppata nel Novecento (l’onirismo surrealista e i suoi automatismi), e ribadita in modo epigonale anche da tanta poesia italiana odierna. Invece la letteratura per Strindberg è espressione e conoscenza allo stesso tempo, dunque tensione etica perché nel suo campo di battaglia si incontrano e scontrano modi e aspetti molteplici dell’esperienza umana, si formulano delle ipotesi di mondo di fronte a cui la soggettività dell’autore è sempre responsabile, ha sempre il dovere di rispondere e costruire. L’incapacità «di ascolto e cognizione» scaturisce dal soggettivismo esaperato di certe posture ereditate e ripetute fino alla nausea precisamente decadenti: dall’ipertrofia dell’io che non si considera più un frammento in relazione con gli altri e un insieme più grande, ma che si definisce e si pone come il Tutto. Da qui derivano l’autoreferenzialità, il narcisismo e tante altre patologie della cultura, poesia non esclusa. È una poesia che torna a essere discorso del mondo e sul mondo che può porre un argine a tanta deriva. Per fortuna i poeti “forti” ci sono.

Quali parole la “trovano” se chiedo di tratteggiare August Strindberg? Ovvero in un lungo tempo di “ascolto” cosa le hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare”?

Detto in breve: profondità, potenza visionaria, interrogazione, agonismo, rigore del pensiero, musica dei significati, lirismo mai consolatorio, soggettività che si esprime in una tensione continua fra etica ed estetica. A me interessa la sua convinzione che la sofferenza non può essere ineluttabile e che l’ingiustizia (sociale e non solo) può sempre essere combattuta e sanata. Strindberg non si rassegna all’idea che l’essere umano debba soltanto subire; o che possa essere considerato una copia della realtà, che è per lui determinata non soltanto da leggi fisiche, ma anche e naturalmente da urgenze metafisiche.

“l’anima scioglie i suoi lacci e le sue maglie.”, la poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Non necessariamente. Per i vivi l’invalicabile resta tale, il mistero resta misterioso, enigmatico. Lo si può interrogare; la lingua lo può interrogare, ma c’è tanto Aldiquà pure da interrogare, da conoscere…E la poesia non può essere solo evocazione, secondo un equivoco culturale duro a morire (da leggere la solida disamina in merito nel libro di Riccardo Campa, Evocazione) o trionfo dell’analogia intesa ancora alla maniera ottocentesca come processo irrazionale, in barba agli studi altrettanto solidi di Enzo Melandri.

 “Così per il mondo io vago/ in cerca di avventura,/ per dimenticare ed esser dimenticato/ e sanare la mia ferita”, la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

La poesia è espressione e conoscenza, non autoconsolazione, cioè specchio di un io narcisistico. Anche il poeta deve scrivere “per il sé che coincide con gli altri” come dicevano Giorgio Caproni e Giuseppe Pontiggia. La solitudine del poeta è colmata dai lettori che lo comprendono, dagli altri esseri umani in genere che lo comprendono. E non dimentichiamo mai che la solitudine è beata e proficua se ci restituisce aumentati alla vita con gli altri.

 La poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, di riscrittura?

Certo che la poesia è traducibile!  Tutte le culture umane lo sono, tutte le letterature lo sono, appunto perché sono espressioni della natura-cultura umana, dei sentimenti, degli istinti, dei pensieri, dei valori e disvalori che l’essere umano condivide antropologicamente con i suoi simili. Cambiano le lingue, i loro sistemi e codici, e in questo caso bisogna affrontare un lavoro formale consapevole di adattamento, versione e anche invenzione basandosi su principi di identità oppure di analogia profonda fra lingua di partenza e lingua di arrivo. La traduzione riuscita è precisamente traduzione e anche reinvenzione, ma sempre in relazione formale stretta con il testo straniero di cui si esegue la versione.

E, ancora, la poesia è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisce, “semplicemente” da un verso?

La poesia, la letteratura, è tutte e due le cose, ovviamente. Non si può dare l’ispirazione senza la costruzione e la costruzione senza l’ispirazione. I processi intuitivi e i processi razionali si intrecciano e si scambiano di continuo nella costituzione della forma, come ha spiegato Bachelard. La poesia mi ha dato molto fin da bambina. Appartengo alla generazione che studiava le poesie e le imparava a memoria: non ringrazierò mai abbastanza i maestri e i professori che mi hanno imposto questo esercizio come compito scolastico. I versi imparati riaffiorano in certi momenti per mostrarmi il volto delle cose, sono una chiave per comprendere e aprire il mondo. Ce ne sono di questi doni ricevuti dalla poesia… da Omero e Pindaro in poi, non saprei quali versi citare qui, sono tanti.

Sceglierebbe, e per salutare i nostri lettori, una poesia di August Strindberg che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il suo essere nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?

Per la sua postura nei confronti del mondo, per la sua ampiezza di orizzonti immaginativi, per la sua tensione espressivo-conoscitiva, per la fisica che si fa metafisica senza che nessuna delle due si perdano, direi senz’altro Numeri e leggi della creazione:

Calculat Deus et mundus fit!; si interpreta: Sia!
Sia con numero e con misura; principia così l’opera della creazione.
Il punto è riposo; esso si sposta in avanti e la linea è creata.
La linea poi con sé stessa procrea una superficie coprente.
Le superfici procreano, e subito il corpo che lo spazio riempie
diventa una realtà, dotata di peso e attrazione.
I corpi si attirano l’un l’altro; i più grandi attraggono i più piccoli;
questa è la forza, la forza di gravità, che muove l’Universo.
L’amore è chiamato anche ciò che il Tutto tiene insieme;
l’odio ciò che respinge, divide, dissolve e uccide. –
Movimento, dunque, in numero e misura della bellezza,
[è il principio della vita.
I numeri li si divide in: numeri primi, che mancano di genitore e genitrice;
composti, prodotti da altri; ed essi sono nati.
Il più rimarchevole e unico è l’Uno, il principio dei numeri;
nato da sé stesso, ma non generato, dà però alla luce tutti gli altri.
Questo è il numero del Creatore, non mutevole, simbolo dell’unità.
Uno per uno è sempre uno, e il quadrato di uno fa lo stesso;
la radice di uno è sempre uno. Si denominava autogenerazione una volta.
Due è il numero della divisione, tutto è creato, i due genitori.
Tre è quello della famiglia, con il padre, con la madre e il figlio:
il fondamento è posto per la famiglia e per lo stato, per le nazioni e i regni.
Tre è anche quello dell’armonia; ha un principio, una fine e un centro.
Il movimento avanza così lento nel raddoppio, nella scissione
[e nell’accoppiamento;
ricomincia da capo con la decina, è l’ottava dell’uno,
corrisponde alla nota principale, ma suona in un registro più alto. –
Ha poi calcolato il Creatore l’ordine dei pianeti nella catena;
il numero della distanza dal Sole è esattamente divisibile per l’intero,
anche il numero di quello più lontano è il quadrato di quello più vicino.
Ne sia teste in giudizio, Mercurio, che si muove con il numero
[cardinale quattro,
e al quadrato, diventa sedici, e Marte è il quadrato.
O nella serie inversa, Venere è la radice di Giove;
la Terra lo è di Saturno e Marte lo è di Urano; sulla media
[del variabile complesso
numerico degli asteroidi, si è costruito Nettuno.
Immaginati una corda come quella dell’arpa eolia, che sia tesa
proprio dal Sole in fondo fino a Nettuno, che è il più lontano,
l’angolo dell’oscillazione dà una nota con un’altezza conforme alla lunghezza.
Il Creatore ha così disposto un pianeta lungo la linea di misura tonale;
e come un accordo possente l’universo è all’unisono nello spazio:
il Sole è la nota principale, ma Venere è la terza e la settima Giove…
Armonia delle sfere era il nome di un fatto presagito.
Se si parla di misura della bellezza, è così che è stato costruito
[il mutevole Tutto;
è stato calcolato, misurato e pesato sulla bilancia, con piombo e riga.
Credi tu che si sia fatto da sé il mondo in modo ingegnoso ordinato?
Solo un pensatore l’ha pensato, un artista lo ha secondo bellezza creato.
Chi ha ben calcolato la lunghezza del pendolo dal principio del principio?
Dieci è la lunghezza del filo, quando un secondo oscillerà;
dieci è l’altezza dell’acqua in vuoto d’aria, lo sai;
dieci quella che può raggiungere il primo secondo un corpo che cade;
dieci, e non di più, del metro come parte di un globo terrestre. –
Sessanta secondi, fa un minuto, mentre il cuore umano
batte i suoi sessanta battiti, al pari del bilanciere in un orologio zelante.
Oppure con un altro metro di paragone e preso da altre aree:
la nota più profonda dell’organo percepibile dall’orecchio umano
è ottenuta da una canna di sedici cubiti, né più né meno;
di sedici cubiti è l’altezza dell’acqua nel tubo in vuoto d’aria;
(di sedici cubiti si innalzò anche l’acqua nel leggendario diluvio
[universale!)
sedici oscillazioni compie la nota più bassa della scala,
sedici (su mille) la più alta; allora principia il silenzio eterno.
I numeri chiarificano qui una intima connessione delle cose,
che è nascosta però; forse un giorno sarà rivelata.–
La luce e il suono sono soltanto movimento, nell’etere e nell’aria,
obbedendo alla stessa legge; ciò appare nell’immagine dei colori solari;
e spettro essa è pure chiamata; è divisa da linee più scure,
quasi intervalli, e cadono alla distanza della scala tonale. – – –
Alcuni lo chiamano caso, ma altri credono che sia intenzionale!
Se volgiamo lo sguardo in giù alle sostanze più solide della materia,
anche con numero, con gravità e con peso esse agiscono in modo costante.
Il peso è la misura della gravità e la gravità è attrazione verso la terra.
Le sostanze hanno il proprio peso, ma anche la propria reciproca attrazione;
si chiama l’equivalente, e dovrebbe essere correttamente interpretato
come una forza della materia, un dono di movimento della polvere,
un istinto a cercare un coniuge e a inserirsi in una autentica unione.
L’acido cerca la sua liscivia e la liscivia va a trovare l’acido;
se l’unione di tutti e due è favorita, ambedue nascono al sale.
Lo zolfo ama certo il metallo, ma è circoscritto il potere dell’amore
[carnale.
Il mercurio, lo si può vedere, la lucente acqua metallica,
quando in una stanza è capitata quella l’ardente resina giallo oro –
lo zolfo, e ambedue riscaldati l’uno contro l’altro a un fuoco mite,
mutano subito la loro natura e perdono la personalità;
diventano essi stessi un bambino, il rosso cinabro fiorente.
Partorire non possono, poiché vive in apparenza solamente quella
[sostanza,
fanno unicamente finta di avere figli, poiché i genitori sono invero i figli.
Se sono separati, subito sono di ritorno il padre e la madre,
generano di nuovo, e il bambino ha cessato di essere come tale.
L’enigma nessuno l’ha risolto, ma i numeri sono stati trovati con la bilancia.
Sedici parti di zolfo han cercato cento parti di mercurio.
Sedici e cento fanno centosedici, che formano il cinabro.
Come sono stati determinati questi numeri, chi ha ben misurato
[l’attrazione delle sostanze?
È invero altro che un peso; questo si chiama capacità di saturazione.
Se metti centesimi di grammi di Mercurio sulla bilancia analitica,
si richiedono in peso centesimi di grammi di zolfo per compensare.
Per ciò, il peso delle masse è altra cosa dall’equivalente.
L’arte di separare l’oro dall’argento insegna pure che a vicenda
[si attraggono le sostanze
in modo proporzionalmente diretto alle potenze del proprio peso –
l’equivalente dell’oro è il quadrato del peso effettivo;
rame e argento e ferro, e tutti i metalli pesanti
seguono la medesima legge: gli altri si mischiano al cubo –
così la materia è dotata di vita, una vita al grado minimo,
agisce con numeri seguiti da mutamento di proprietà;
come tale mutamento abbia luogo, nessun mortale finora lo sa.

Daniela Marcheschi è autrice di diversi volumi e saggi sulla poesia e sulla narrativa italiana e scandinava. Ha pubblicato L’Amorosa Erranza, Prefazione di Felice Del Beccaro, Siena, Quaderni di Barbablù 23, 1984; Sul Molo Foraneo (Poesie 1979-1990), Prefazione di Giuseppe Pontiggia, Firenze, Esuvia, 1991; La Regimazione delle acque Poesie 1992, Con il saggio Una classicità senza classicismi di Amedeo Anelli, Parma, Il Cavaliere Azzurro, 2001; Si nasce perché l’anima. Poesie e Poemetti 1995-2002, Lucca, Zonafranca, 2009; Ossigeno, con un’incisione di Luciano Ragozzino, Milano, Il Ragazzo Innocuo, 2012; Fuoco, Prefazione di Roberto Barbolini, Viadana, FUOCOfuochino, 2012. Ha tradotto numerosi poeti scandinavi e non solo: Karin Boye, Edith Södergran, Tomas Tranströmer, Elizabeth Barrett Browning, Magnus William-Olsson,  Fracisco Niebro, Jorge Guillén, Christine Koschel,  Birgitta Trotzig, August Strindberg, ecc. Nel 1996 ha ricevuto un Rockefeller Award per la Letteratura (Critica e Poesia); nel 2006 è stata insignita del Tolkningspris dell’Accademia di Svezia; nel 2024 è stata Visiting Scholar all’American Academy di Roma.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 08.09.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

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