cop i poeti della lontananza su l'estroverso

Sono sette, numero sacro. Sette versificatori diversissimi per tenore compositivo, stile, forma e contenuti, eppure sette voci ultracontemporanee che emergono dal panorama letterario italiano come vessilli di possibilità espressive legate dal medesimo filo conduttore: il vivere o l’aver vissuto, per lungo tempo, per un po’ o per sempre, in un paese diverso da quello d’origine e avere fatto di questa lontananza una condizione esistenziale direnta e fatta salva dalla propria volontà artistica e dalla propria produzione poetica. L’avere assunto la nostalgia delle cose lontane a modus sentiendi, la vis passionale come forma di aisthesis e di sensuale salvezza, la riflessione e la partecipazione al mondo globalizzato, nonché l’attenzione alle culture e alle letterature di altri tempi e paesi come ideale cosmopolita e la meditazione sull’amore, sulla societas umana, sulla vita e sulla morte come chiave del cor di Federigo è ciò che li accomuna e li definisce in quanto poeti che, all’interno della nostra letteratura, cantano la condizione, straniante ma al tempo stesso salvifica, dello sradicamento. Omar Ghiani, Domenico Arturo Ingenito, Francesco Terzago, Antonio Bux, Ianus Pravo, Michele Porsia, Alessandro De Francesco. Sette poeti della lontananza. Sette poeti dell’esilio. Sette rappresentanti ed ermeneuti di qualsiasi lontananza ed esilio, di qualunque condizione outsider, di qualsiasi forma di orfananza. Ma anche, più semplicemente, sette poeti che, nelle forme e nelle modalità più disparate, scrivono lontani da casa. Se per il Leopardi dello Zibaldone la ricordanza è una condizione già preproustiana, non la rappresentazione di un quid, ma “una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica” (Zib. 515, 16 gennaio 1821), potremmo dire parimenti che per i nostri poeti la lontananza non è una rappresentazione pura e semplice, bensì è un sentimento che sembra fungere da “ponte fra intelletto e ragione” (lo direbbe il Kant della Critica del Giudizio), cioè da luogo di passaggio metaconcettuale tra la dimensione teoretica e quella estetica e che esemplarmente ci permette il sentire, l’esperire e il partecipare proprio in quanto esseri senzienti all’autocoscienza e alla successiva conoscenza elaborata, concettuale, verbalizzata, dell’esserci. È così che le figure topiche della lontananza, come l’addio, la morte, la solitudine, l’amore, il pentimento, la follia, l’estraniamento, la nostalgia di un passato imposseduto e di una società mitica che non c’è più, assumono valore emblematico di catarsi e catabasi nei poco asettici inferni dell’Io e dell’altro da sé. E tuttavia, si tratta di argomenti che nei testi di questi poeti non vengono affatto abbandonati nell’esclusiva dimensione di un lirismo tradizionale incentrato sulle percezioni esclusive del soggetto, nemmeno in coloro che appaiono meno sperimentali e più legati ad una impostazione classica del versificare; vengono bensì rivissuti, alla luce della  contemporaneità, attraverso una sensibilità rinnovata, assumendo un pieno e cogente valore euristico giacché, attraverso di essi, possiamo indagare l’esemplarità stessa dell’esistenza.

(dalla Prefazione di Sonia Caporossi)

 

La poesia della lontananza è la poesia della rarefatta assenza, della perfetta atemporalità in cui ogni tentativo di fuga dal reale, fisico e immaginario che sia, diviene impossibile perché ovunque si portino lo spaesamento e la dispersione randagia dell’esistenza, sulla montaliana “sfera lanciata nello spazio”, si materializzerà, dissonante e sublimato, quell’amor de lonh che possiamo definire lo stato dell’animo poetico che immanentemente domina questa raccolta. La sublimazione di questo amore che s’incarna nel mito dell’amor de lonh, è rivolta infatti all’impossibilità di integrare nell’altrove geografico, esistenziale, ideologico, emozionale, una mancanza: una sorta di afasia del pensiero che appare come l’asse metaforica di un alfabeto emotivo, la quale rinvia a significati più profondi, a relazioni insospettate che aspettano di diventare evidenti. Qui infatti il pensiero, quello che leopardianamente non teme se stesso e non si cura degli approdi, diviene il grande demiurgo della parola. Il pensiero che diviene poietico, che fa della forza germinante della distanza fisica la capacità rivelatrice della distanza psichica. La poetica della lontananza diviene, dunque, poetica dell’insondabile assenza: assimilabile, mutatis mutandis, a quella infiltrata in molta poesia simbolista e postsimbolista (si pensi, ad esempio, all’ermetismo). L’egemonia pulsionale che  domina l’ispirazione dei testi qui raccolti, identificabile con ciò che possiamo definire con il termine provenzale razo, è infatti un disperato sentimento di privazione che alimenta l’istanza perennemente inappagata di congiungimento dell’Io con l’Altro, sentito come termine di un irraggiungibile quanto agognato equilibrio. Uno status della coscienza che potremmo chiamare di derelizione, non empiricamente rivolto verso una persona reale o una situazione esistenziale ma, per così dire, consustanziale e ontologico: segno di un destino ineludibile, simboleggiato dalla perdita. Tale stato d’animo, emergendo dal profondo alla luce della coscienza, si verbalizza nell’archetipo fonico lonh. È questo infatti il nucleo generativo dell’ispirazione dei testi di questi poeti, la matrice espressiva che genera un campo semantico immaginabile soltanto in una duplice pulsionalità: come luogo della materialità della vita empirica e nello stesso tempo luogo ideale dov’è l’oggetto dell’istanza poetica; veri e propri centri gravitazionali, dunque, di due costellazioni sinonimiche contrapposte, attivate dalla proliferazione lessicale che i loro impulsi contrastanti producono nella scrittura.

(dalla Introduzione di Antonella Pierangeli)

 

versi scelti da POETI DELLA LONTANANZA
 Omar Ghiani, Domenico Ingenito, Francesco Terzago, 
Antonio Bux, Ianus Pravo, Michele Porsia, Alessandro De Francesco
a cura di Antonella Pierangeli e Sonia Caporossi
POESIAOGGI N. 21 (Marco Saya Edizioni)

 

Omar Ghiani 

Partenze
 
I.
La fronte bianca sul vetro, le cose che forzano. Per loro il sole
riempie le camere di fresco. Per loro si scolorisce il libro, il libro
che ascolta crescere altre foglie.
 
Sui libri le tracce
il margine con le firme leggere
le mani sono annerite da una rete.
 
Dicembre – isola
lo stoppino si slega
al confine tra terra e acqua
la terra è acqua infinitamente.
 
Così sulle ciglia la ghiaia si fa vetro
così il vetro è sabbia e respiro
un ritorno pieno
ai tralicci di vischio
contro un filo di cinghia
sul campo stringato
sul corpo marrone della terra.
 
L’immortalità agli orti.
 
II.
 
Le dita si incrociano nel peso, rompono la preghiera ferma.
 
Stringono funi ai pali
agli angoli del piede
un fiocco li unisce sul ferro
la nocca rade il sale
il pane di gerba lo chiude
tutto è pronto
si riposa il seme
la goccia è gemma
dove il pigiama schiude l’occhio di cotone
dove i nodi delle dita magre
essere dei rimanenti
essere quello che le mani non fanno.
 
III.
 
Ai palmi nei giardinaggi, al ristoro dove la biscia entra in sé, ai
fogli sul frigo. Ci hanno curato altri oggetti, il parquet dei circoli
volontari, i punti fitti nelle foto, ogni cosa che sa affrontare la
geometria.
 
Aria che fori le lumache, che sei gesto di spire, sali se hai carne e
pasta agli angoli di fumo, torna se la casa è traccia, trovaci senza
il cenno del fare, senza lettura, senza la testa sui detriti.
 
 cop i poeti della lontananza su l'estroverso
 
Domenico Arturo Ingenito  
                                                         a mia sorella
Non so bene se al tempo
noi per riflesso di inappartenenza
alla vita di infanzia ormai sfuggita
o per stanchezza tacita dei giorni
pieni di fiato, enormi notti nostre
a depositarsi come d’incoscienza
segreta nel rifluire del sangue
– al risveglio dicevo –
per tutto questo o mai per nulla a sé
faticava la mano a farsi pugno
sopore dei tendini
malore di avambraccio, palmo, dita
non come una ferita, ma un sonno
contro tutto lo scrosciare del mattino.
Oggi sento questa luce costante
assoluta estate boreale
ma la mano, sì, – dicevo inappartenenza –
non copre, non richiude né solleva
quel che resta a protezione della sera.

*

Quale lavoro non può mortificarci

se non quello del miele, antico mestiere
quasi quanto l’ingiuria e la tortura?
A quel non essere nulla oggi poco
può voltare il sapere nulla fare:
rifluire del sangue nel sospiro
oppure il poco fiato dell’ansia o del timore.
Ma non temete. I morti parleranno
perché sereni voi restiate qui tra noi
coricati, rivoltati, con le labbra inumidite:
ossa che brillate in ogni terreno
favi abbandonati ai calabroni
rovinose parole di memoria
di noi questo diranno nella storia.
 
 cop i poeti della lontananza su l'estroverso
 
Francesco Terzago 

Quando tornai a casa capii che tu
te ne eri andata. Lo capii dal fatto che il mazzo
di chiavi con la bussola di onice non era
nel piatto d’argento a destra della porta d’ingresso,
né in camera da letto c’erano i tuoi stivali
di plastica gialla. La pioggia, leggera,
presto sarebbe diventata violenta.
Sulle vetrate del soggiorno era discesa
una schiuma scintillante e tu avresti avuto
paura dell’ignoto che avrebbe premuto
le sue cento mani sul nostro appartamento.
La paura sarebbe arrivata con la tenebra e,
a quel punto, noi, rimasti soli con noi due,
ci saremmo fatti del male. Per le strade si stava
raccogliendo l’assenza delle cose, eppure io
ti sapevo al sicuro, – potevi essere dai tailandesi,
dove mobili laccati di rosso disegnano ombre
di lanterna. Oppure a casa di quella
tua amica di Taiwan, quando siete assieme
bevete spumante, e parlate di quante opportunità
disponga questo mondo sulla strada
degli ambiziosi. Il lago torbido è un nodo
di canne, ne vedo gli scintillii strozzati
dalla finestra del bagno. Canne venute su
dalla terra, il cantiere del nuovo mall è scomparso
nell’acqua uscita dalla terra, sottili lamiere
tagliano la superficie del lago come
vele immobili. Le anatre si nascondono
nella vegetazione pioniera, le uova sono fredde.
Altre lamiere, sulle sponde incerte, stanno
sospese a mezz’aria e sembra che escano dal suolo
come pagliuzze d’oro. La pioggia battente
le anima, le muove come ali di libellula,
la pioggia dà loro parole bellissime
arrivano fino a qui, in questa casa piena
per metà e non ne capisco che poche, troppo poche.
  
cop i poeti della lontananza su l'estroverso   
 
Antonio Bux 
  
da Sistemi di disordine quotidiano
 
*

                                                                               

                                                                                   “L’ombra è un’intelligenza laterale:
                                                                                    al centro mostra un catalogo di luce
                                                                           –  i prezzi migliori per comparire sempre –
                                                                                 ma al suo interno non prevede sconti
                                                                                 anzi, si fissa un ricavo esponenziale:
                                                                   rubare alla forma la sua forma primordiale”
L’origine della forma è prima
ancora della forma: si sottrae
dall’ombra, muta destinazione,
non più luce, neanche fiamma,
bensì procede per eliminazione:
toglie dalla visione l’irreversibile,
sceglie l’invisibile nella divisione,
dove il corpo oggetto si calamita
all’attrazione che il buio espande
quando più non vede né morte né vita
ma solo lo specchio di qualcosa più grande.
 
*
                                                                                         “Quello che si alza mentre
                                                                                       quell’altro indietro si siede;
                                                                                              è un sostituirsi sempre
                                                                                   precedendo in avanti – prima
                                                                                   che il disco del tempo prema
                                                                                 la superficie del corpo-stagno
                                                                         rendendone umido il lato migliore:
                                                                        la dimensione che non appartiene”
Non mi si accorge
nell’orma del tabacco
al bruciarmi accanto
l’essere del pensiero
 
rifumare la mia aria
doppiandosi nel fumo
tra parole di nebbia
dove l’ombra s’inala
 
dal filtro della bocca
avviandosi nell’ossigeno
lento dei polmoni neri
l’altro che sta nell’altro.
 
Chi è allora questa tosse
questo starnutire d’anime
al colpo di ogni gittata
di ogni denso annaspare?
 
Chissà il turbine del tempo
che ritornando al respiro
nel fuori di sé è un vuoto
dunque pieno nell’asfissia.
  
cop i poeti della lontananza su l'estroverso  
   
Ianus Pravo
  
da Dizionario della Parabola
 
                                             a Irada Pallanca

[…]

  
Pagina, vento bianco sulla pagina
e la pagina sul vento, la pagina
che non esiste sul vento che non esiste
che è vento perché non esiste, pagina
patria mia, a cui, perché mia, io sono
estraneo, persin la morte è a rischio
sul nome della patria , la pagina
che smerdo di parole come sperma
eiaculato con paura, pagina
prostituta, chi ti chiamò alla vita?
La quaestio.

 

[…]
 
Ubbidienza delle labbra a crescere
pane di sé, lasciami ubbidire
alla tua bellezza, lasciami chinare
il capo e proteggerti nel buio
della mia mente. Io vado in cerca
del Padrone, il Padrone è l’ultima
stazione dell’origine, è lo sguardo
di Orfeo alle proprie spalle, Euridice è
rimasta l’unico verso.
 
Verso, questo misurare facendo ritorno
questo Orfeo che ritorna all’inferno, ancora, ancora
e sempre, questa Euridice che chiede il ritorno
all’inferno, ancora, ancora e sempre, landvermesser
dell’inferno, verità che è stadio superiore
della falsità, la vera falsità, il vino
degli assassini e degli amanti, il vomito
di Peter Punk, lo zero a cui l’uno
manca.
 cop i poeti della lontananza su l'estroverso
 
 
Michele Porsia 
 
non-pensiero o peso-piuma
fischio o non-parola
 
ammesso uno studio sul comportamento
(si noti ad esempio che il merlo nidifica tre volte l’anno)
risulta necessario un voto del silenzio
 
                                                                            ma l’uovo o il merlo
                                                                            ma il suono o il segno
restano un paradosso                                          assurdo
una voce altissima
che una volta ascoltata non è possibile dimenticare

 

*
(quando si smette di avere in  pugno  il  merlo  con  il  suo  battito
accelerato  e   dunque   quando   il  cuore umano   non   ha  più  le
dimensioni   di  un  merlo  e  prima che il merlo prenda o perda il
peso del vento            allora ci si può accorgere che ci sono anche
altri volatili                 estranei e non passeriformi – più di tredici –
compreso ogni augello che ascolto accusator dell’incostanza mia
hanno nomi comuni come passero o rondine            sono in pochi
ma pochi            si rimane sospesi            in aereo             a bocca
aperta in attesa di un cibo             e proprio ora che si è appreso il
volo                 e nonostante una madre biologa                   appare
impossibile associare o combinare o unire la specie del volatile o
quantomeno la sua dizione volgare alle figure di lato                  è
successo  come   se   un    giorno    senza   penna  o  altro  oggetto
scrivente si provasse a tenere a mente la parola                  proprio
quella giusta                      e che poi in questa fiducia estrema ci si
dimenticasse del mito di Theuth         in fine questi estranei e tutti
questi nomi scorporati dall’animale generico non ci appartengono
più                       solo il merlo semplicemente torna come quando
raramente il sonno viene facile        senza esercizi di rilassamento
e senza alcun merlo)
 
cop i poeti della lontananza su l'estroverso   
Alessandro De Francesco 
  
il  tentativo di descrivere  nasce   dallo   stupore  del  reale
soprattutto  per chi con il   reale  aveva in partenza poco a
che fare    a che sentire             e si muoveva in uno spazio
opaco           incastonato nelle pieghe della materia interna
come in un’escrescenza       in un cratere       ma con i peli
dentro            e cosa c’è in quei vasi che saturano il tavolo
con il loro volume  illuminato  da un’assente luce obliqua
le loro  curve parlano in una geometria del possibile in un
accrescimento del mondo a cui si accede per il vuoto nero
dallo sfondo
 
 *
 
in altri vasi invece la realtà si sfoca si stacca  dalle  cose e
poi si sovrappone ad esse in pieno giorno          tre spugne
assorbono  il buio e il brusio del pomeriggio  entra  in una
scatola bianca staccata dal resto e come nascosta
guardandoti  non  riuscivo  a  dirti  che  cercare  è  la  mia
forma  di  gioia   che  l’aver  perso giocando quell’oggetto
nell’erba  è  stato piú importante di tutte le altre cose nella
stanza                                             piú della stessa infanzia
 

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