Nel 1798, quando i fratelli Schlegel insieme a un gruppo di giovani promesse delle arti germaniche fondano la rivista Athenaeum, danno voce a un sentimento diffuso nel mondo della cultura occidentale che non può prescindere dalla rimozione del pensiero giudaico-cristiano a vantaggio della radice greca. Tale ritorno alla grecità – più ipostatizzata che altro – segna il sorgere di una soggettività intesa quale istanza fondativa del mondo. L’aura di quella che si è soliti chiamare Frühromantik ci è oltremodo vicina, anche per mezzo di un immaginario scolastico che riconosce nel poeta-autore una “genialità” e quindi una grandezza fuori dall’ordinario. Quel ceppo giudaico troppo inopportunamente reciso avrebbe invece accompagnato la modernità con un’interrogazione sul legittimo posto dell’essere umano nel mondo che, forse, avrebbe aiutato a ridimensionare la portata “titanica” (in senso greco, certo) della tesi degli Schlegel. Un esempio lampante, dal Salmo 8: «che cos’è l’uomo perché ti ricordi di lui? Che cos’è il figlio d’uomo, che di lui ti prendi cura?».
Questa promessa – speriamo non troppo pedante – per cercare di inquadrare, da una giusta prospettiva storica, il recente saggio di Roberto Cescon (già poeta tra i più apprezzati delle nuove generazioni) che affronta di petto l’argomento di una possibile «poetica della specie» nel volume Di tutti e di nessuno, edito per i tipi di Industria&Letteratura nel 2022. Nello specifico, Cescon intercetta un sentimento diffuso tra le nuove leve della poesia italiana che guarda all’espressione poetica non già come a un’arte che assottiglia la distanza tra uomini e dèi (sulla scorta del modello romantico di cui sopra), quanto come a un fatto, a un accadimento biologico e neurocognitivo della specie umana. La democratizzazione portata fino al nichilismo spersonalizzante del titolo è dunque da intendere secondo una prospettiva che vuole ribaltare lo stereotipo popolare (e banalizzante) dei quarti di nobiltà della poesia per mezzo di un’indagine che ha il merito di sconfinare dalla comfort zone degli umanisti per battere invece la strada, ancora non troppo asfaltata, del dialogo proficuo con altre discipline scientifiche.
I primi capitoli del libro, infatti, circoscrivono la ‘natura’ biologico-evolutiva della poesia, gesto temporale che «accade nello spazio tra l’attesa del ritmo e l’incertezza della sua forma da realizzare» (p. 7); ovvero il suo situarsi tra «l’immagine acustica e le cose […], tra l’ambiente e la facoltà linguistica dell’essere umano» (pp. 22-3). Seguire questa narrazione, se non si mettono bene a fuoco i presupposti scientifici da cui Cescon muove le mosse, può risultare impervio, pure se l’autore friulano espone con chiarezza e soprattutto con rigorosa dovizia di riferimenti bibliografici la sua tesi: il passaggio dal «vivente» all’«umano» avviene solo mediante la relazione duale nel linguaggio tra l’Io e l’Altro.
Forte di un excursus sintetico ma ben documentato sulla nascita del linguaggio umano (cap. 4), Cescon pone, nel capitolo centrale del libro, l’interrogativo primario sull’origine dell’espressione poetica: «E la poesia, da dove viene?». Facendo coincidere quest’ultima con la possibilità dello “strumento umano” (per dirla con Sereni) della voce che in-canta, come nel rito religioso-sciamanico, Cescon riconosce il credito della esperienza corporea della parola derivante «dalla sua funzione mimetica, sonora e ritmica, oltre che gestuale» (p. 42). In quanto esperienza cognitiva della specie umana, «di tutti e di nessuno», la poesia è la voce di un uomo [che] entra nel corpo di un altro tramite il suono del pensiero e da questa materia sonora e linguistica, che accompagna il dispiegarsi di scene e eventi, chi ascolta prende coscienza del suo sentirsi vivo, per poi tornare alla sua normalità. Nell’ascolto è tutto il corpo a protendersi per l’inclinazione naturale a imitare il movimento e il ritmo. (p. 44)
La relazione tra poeta e fruitore (ascoltatore e/o lettore) implica un dispiegarsi della voce – corporea – nello spazio e nel tempo che si configura, in ultimo, come un evento, un accadimento presente a sé stesso nell’unico tempo possibile: il nowhere di una soglia, dell’“essere tra-” di cui parlava Heidegger che è il confine identitario dei due soggetti immersi nella relazione (p. 52 e sgg).
Precisato questo punto, Cescon può avviare una disamina ermeneutica su alcune forme poetiche (da Petrarca a Montale, da Pavese a Mario Benedetti) alle quali si riconosce il crisma di essere prodotti di una corporeità psico-biologica, vale a dire di un vissuto che si estrinseca in un determinato ritmo. I capitoli conclusivi del volume, infatti, più che uno sterile esercizio di critica metrica, intendono fungere da verifica fattuale, sul campo, di quanto precedentemente espresso in via teorica. Attraverso l’autorevolezza di quelle voci poetiche, Cescon invita il lettore a porsi in ascolto del respiro di un proprio simile, della interazione tra sistole e diastole così come delle cadute del sangue e delle improvvise apnee, per discernere e infine legittimare una esperienza del mondo che è anche la propria, cioè di tutti e di nessuno.