#1Libroin5W.: Antonio Di Grado, “Catania: due o tre cose che so di lei”, Algra.

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Chi?

Potrei indicare personaggi significativi del nostro passato prossimo come Franco Battiato, o Pippo Fava, Giuseppe Giarrizzo, Giacomo Leone, Pietro Barcellona, o ancora figure da tutti rimpiante come il poeta-editore-sindaco di Valverde Angelo Scandurra; oppure, un po’ più indietro nel tempo e già dimenticati, un sacerdote colto e anche lui poeta come don Antonio Corsaro o il fondatore del Teatro Stabile Mario Giusti. Potrei parlare di Emilio Greco, che ho avuto la fortuna di conoscere quando facemmo appena in tempo a dedicargli un museo; o tornare ancor più indietro ai padri nobili, ai giganti sulle cui spalle a fatica ci inerpichiamo: Giovanni Verga, Federico De Roberto, Vitaliano Brancati, che di Catania ci hanno dato un’immagine che ai nostri occhi si confonde con la vera. Addirittura potrei risalire ai miti su cui si fonda la nostra pericolante identità: sant’Agata, Bellini… Ma preferisco indicare come protagonisti i tanti artisti anonimi o dimenticati che animano il ricchissimo e trascurato sottosuolo della creatività etnea, i tanti operatori culturali cui non fu concessa che la penombra dietro le quinte, dove tuttavia produssero prodigi di genio e abnegazione; ma si sa, la storia è scritta – diceva Brecht – coi “nomi dei re” e non di “chi costruì Tebe dalle sette porte”.

Cosa?

L’identità, per dire che è solo l’invenzione di qualche politico marpione o di qualche nostalgico erudito locale; per dire che è un mutevolissimo terreno su cui ogni epoca e ogni ambiente stratificano i loro pregiudizi e mettono in mostra le loro imposture; per dire che la vera ricchezza sta semmai nella diversità, nell’irriducibile pluralità di linguaggi e progetti contrastanti, di talenti ed esperimenti disparati, che fanno viva una città come una nazione. E ancora: la creatività, lo scialo di estro, d’inventiva visionaria, d’idee e creazioni innovative nelle tante officine d’arte e di cultura, soprattutto giovanili, che – come dicevo prima – ottuse amministrazioni ricacciano nel sottosuolo anziché valorizzarle. Il rapporto con gli artisti catanesi è il ricordo più bello, assieme alle Estati catanesi realizzate con Franco Battiato, della mia esperienza come assessore alla cultura della “primavera di Catania”. Infine: la maternità. Catania come grembo prenatale in cui riparare anche se, come i personaggi di Brancati, per restarvi invischiati; e poi quell’ultima manifestazione dell’arcaico regno delle Madri che è il matriarcato siciliano, all’ombra del quale sono cresciuto; e infine, naturalmente, mia madre.

Quando?

Il libro nasce da due occasioni: la relazione a un convegno organizzato da Giovanni Leone, figlio di Giacomo, in memoria del padre, e una conferenza che tenni poco dopo alla Dante Alighieri. Da questi due testi venne fuori il secondo capitolo del libro, Cinquant’anni d’inerzie e di furori: 1950-2000, che è, direi, il suo centro, il suo fondamento. Il resto si è andato aggregando intorno a quel nucleo: analisi, ricordi, miti, personaggi.

Dove?

Ringrazio il pensionamento e il Covid, e la conseguente vita claustrale (il massimo, del resto, delle mie aspirazioni): cinque libri in poco più di due anni è un gran bel risultato. Libri profondamente sentiti, e gioiosamente anarchici, finalmente affrancati dalle norme di una università sempre più autoreferenziale, sempre più chiusa nei suoi gerghi e nei suoi algoritmi.

Perché?

Miguel de Unamuno amava dire: “Me duele España”, mi fa male la Spagna. Perché questo libro? Perché mi fa male Catania, e urgeva un analgesico, una combinazione chimica di memoria nostalgica e di analisi critica, per sedare la sofferenza mia e degli altri seduti come me in questa febbricitante sala d’aspetto.

scelti per voi

Franco Battiato: un caro amico, che avevo imparato ad amare nelle splendide stagioni dell’”Estate catanese” degli anni Novanta, fianco a fianco (o dovrei dire sui suoi passi) alla sua onnivora curiosità intellettuale, alla sua insonne creatività, alle mille idee che nutriva e realizzava per produrre bellezza e dilatare le coscienze. Un amico e un compagno di strada; ma più che di strada dovrei parlare di Via, del percorso tortuoso e accidentato del Tao, o della tormentata ascesi dei mistici, dei cercatori di verità e di senso, inappagati dalle provvisorie stazioni di questa o quella fede, sempre oltre, felicemente smarriti nell’”oceano di silenzio” dove senti alitare, ma non puoi attingere né mai compiutamente contemplare, il Divino, l’Inviolato.

«Ed era come un mal d’Africa», questo sognare altri cieli e altre terre nelle roventi temperature e nel deserto di malessere e malaffare in cui siamo confinati, così lontani dal limpido e rarefatto nitore delle notti bianche in cui rifulgeva «la grazia innaturale di Nijinskij». Tanto più lontani quando di Franco poco o nulla sapevamo. Ripeto: lungi allora da me l’intento di forzare una privacy affettuosamente difesa. Ma certo era un dolore, per gli amici, non poterlo più visitare come una volta né parlargli al telefono, avere di lui solo informazioni molto discordanti e tutte di seconda mano, e soprattutto venire a sapere (ma era vero?) che era in vendita il buen retiro di Milo che lui tanto amava. E come avrebbe potuto, il celeste Franco, allontanarsene? Come dipingere le sue icone e comporre le sue armonie, fuori da quell’Eden scelto da “un essere speciale” e animato dalla sua “cura” solerte e amorosa?

«E ti vengo a cercare / anche solo per vederti o parlare / perché ho bisogno della tua presenza / per capire meglio la mia essenza…». Quante volte, Franco, si veniva a cercarti, a parlarti, a capirsi, a condividere quelle «gioie del più profondo affetto / o dei più lievi aneliti del cuore» che sono, sì, «solo l’ombra della luce», ma quella luce annunziano, ne fanno germogliare un barlume nella limpida e serena notte di Milo, oltre la linea d’ombra della solitudine e della lontananza.

Accigliato e scontento, quel Domenico Tempio dal naso spesso offeso dai teppisti, impietrito in un busto scultoreo nel viale degli uomini illustri dell’etnea villa Bellini. E quella smorfia indignata, che l’accompagnò per le vie di Catania tra le risate e le rabbie d’una plebe vivacissima e irredenta, ora non può non apparire come un rimprovero: a chi non ha ancora reso giustizia, e il posto prestigioso che gli compete, a uno dei massimi poeti del Sette-Ottocento italiano.

Un poeta sovversivo per indole e vocazione e cortigiano per necessità e legami; ma poeta comunque della plebe affamata: “Iu cantu la miseria”, suona la squillante e orgogliosa protasi della Carestia, quel truculento e magmatico poema in dialetto che è un unicum nella nostra letteratura, e non solo per la sua sfrenata genialità inventiva, ma perché – trattando d’una sommossa popolare avvenuta a Catania nell’ultimo scorcio del XVIII secolo – tratta in realtà il grande tema della Rivoluzione, sull’onda delle speranze suscitate anche quaggiù, tra i giovani amici di Tempio, dalla rivoluzione francese dell’89.

Tempio, dunque, ovvero la necessità di rendere giustizia a un grande concittadino obliato o frainteso, di riparare a una duplice omissione: quella, che riguarda tutta la comunità degli studiosi, di non avere riconosciuto la grandezza d’un poeta e d’un intellettuale che svetta, anzi sgomita con rabbia, nell’aristocratico consesso del secolo dei lumi; e quella di una città avara, matrigna come la nostra, sempre pronta a ricambiare il genio con l’indifferenza, a espellere dal suo grembo i suoi figli migliori o peggio a intrappolarveli, a divorarli costringendoli a un inoperoso e astioso silenzio come quello dell’ultimo Verga.

Oppure a snaturarli, devitalizzandone la sostanza intellettuale, immiserendola (è il caso di Tempio) al livello infimo della barzelletta sconcia, dell’insistito omaggio alla fallocrazia tributato da una società maschile che trema (e ce l’ha dimostrato Brancati) nell’atterrita contemplazione della propria impotenza.

E invece Tempio, prima e più d’ogni altro dei grandi scrittori che ci hanno raccontato e spiegato Catania, è Catania: è la sua plebe chiassosa e rissosa, è il fantasmagorico teatro delle sue vie e piazze in cui geometria e caos coincidono e s’intrecciano, è la diffidenza beffarda per il Palazzo e i suoi ossequienti cantori, è il ghigno licenzioso opposto dai “vinti” ai fasti patrizi, è la sensualità abbacinante che fa tutt’uno con la temperatura arroventata dei suoi climi, del suo farnetico torbido e polemico. È la protervia dei suoi politici truffaldini e accaparratori, è il suo ateneo in preda al demone della Masticogna (triste profezia!), è (e basta leggere La maldicenza scunfitta, dove il mito della ricostruzione di Vaccarini è restituito alla polvere dell’incompiutez­za e delle utopie in soffitta) la bugia dei suoi aerei fondali e delle sue quinte barocche, che mascherano le macerie e la miseria retrostanti e, a scorno di quello sfarzo, irredente.

È tutto questo, la Catania di Tempio, ma è anche lo sguardo lucido e irriverente che la smaschera. È l’affilata intelligenza che conficca la sua lama nel caos, e che ne assume il rovente furore, la sfida destabilizzante. Perciò non è, quello di Tempio, un ozioso esercizio libertino, né è, la sua, un’astratta fenomenologia dell’eros. Catania non ha in Tempio il suo marchese de Sade; e fa senso l’idea di far irrompere negli algidi e annoiati boudoirs del diabolico marchese la plebaglia scatenata e triviale evocata dal buon Micio. È perciò che di Sade si parla, di Tempio tutt’al più si sogghigna.

*

Antonio Di Grado è stato professore ordinario di Letteratura italiana nell’ateneo catanese. Nel suo percorso di apprendista e poi di studioso ha avuto la fortuna di incontrare due grandi maestri come il filologo e italianista Salvatore Battaglia, cugino della madre, e Leonardo Sciascia. Quest’ultimo lo nominò direttore letterario della Fondazione che gli sarebbe stata intitolata: dal 1990 a tutt’oggi Di Grado svolge quest’incarico. Ha scritto un po’ di tutto; nei suoi libri più recenti si è occupato dei romanzi sull’anarchia (L’idea che uccide, 2018), delle mistiche (Le amanti del Loin-Près, 2019), delle congetture letterarie sull’Oltre (Al di là. Soglie, transiti, rinascite, 2020), degli scrittori del “ventennio nero” (Scrivere a destra, 2021).

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