#1Libroin5W
CHI (sono i protagonisti del libro)?
I personaggi di queste storie sono realmente esistiti e molti di loro sono ancora vivi nella memoria dei milesi; solo in due dei racconti, ambientati tra il XV e il XVII secolo, i protagonisti emergono da polverosi documenti di archivio sulla storia di Milo. Pur nella trasfigurazione letteraria, i personaggi appartengono alla memoria collettiva che, nel tempo, ne ha fatto delicate epitomi delle virtù e delle debolezze umane. Ciascuno di loro è stato colto in un momento epifanico della sua vita, che ho rivisitato in punta di piedi e con grande rispetto. Si va da un Priore di Milo del XV secolo a Don Puddu da Nivi, dal Barone prussiano von Gloeden a uno speziale dei primi del Novecento, da Mara ‘a Scarpasciota, forse la prima femminista della storia, ad Alfio “Garibaldi”, da Mons. Fichera a Peppino il pazzo. E ci sono omicidi misteriosi, rapine, storie segrete, amori proibiti o impossibili, imprese al limite dell’immaginazione, i diavoli buoni del Mongibello.
COSA (raccontano queste storie)?
Raccontano la quotidianità di un piccolo borgo di montagna, nella quale irrompe improvvisamente l’evento straordinario che, da un lato, rivela l’essenza del personaggio, dall’altro, fissa momenti salienti della vita della comunità: la costruzione della prima teleferica sull’Etna, la fondazione della Chiesetta di Fornazzo, l’arrivo dell’elettricità e della prima farmacia, la breve stagione di Wilhelm von Gloeden a Milo, le contese elettorali fra democristiani e comunisti negli anni Cinquanta, il conseguimento dell’Autonomia Comunale. I temi sono, comunque, un pretesto per parlare dei personaggi che sono il nucleo significativo delle storie narrate.
QUANDO (è nata l’idea)?
L’idea di scrivere questa sorta di piccola Spoon River si è fatta strada gradatamente nel corso dei lunghi anni che ho dedicato alla ricostruzione della storia di Milo. C’è stato un momento in cui ho sentito il bisogno di liberare i personaggi che più avevano colpito la mia immaginazione da quel vestito troppo stretto nel quale li ingessava la Storia. In un certo senso, sono stati proprio loro a sollecitare la scrittura del libro; avevano bisogno di tornare a respirare e solo l’arte poteva dargliene l’occasione. Se la gestazione della silloge è stata lunghissima, la sua stesura ha preso solo un paio di mesi: era come se i personaggi, intuita la mia intenzione, avessero fretta a venir fuori a respirare un poco d’aria buona. Reclamavano la parola e gliel’ho data.
DOVE (è nato il libro, in quale luogo metaforico)?
Credo sia nato dal mio bisogno di “verità”, quella cui solo la letteratura riesce a dar forma, quella che i romantici chiamavano la vera essenza delle cose. Questa “verità” è qualcosa di ben più profondo del documento storico, perché nascosta non tanto nella biografia dei personaggi, ma in pochi, a volte unici, momenti rivelatori della loro vita, nelle loro epifanie, come direbbe Virginia Woolf. Il bisogno di “verità” nel quale è cresciuta la stesura del libro rispondeva, d’altra parte, al mio desiderio di fissare nella memoria dei più giovani i volti di uomini e donne che, pur non trovando posto nei libri di storia, hanno segnato, nondimeno, coi loro piccoli atti, la vita della comunità nella quale hanno vissuto.
PERCHÉ (questo libro)?
Si scrive contro la morte. Si scrive per durare. Si scrive per dare – o ridare – vita. Ogni libro è uno sberleffo alla morte. Ogni tanto, ho come la sensazione che i miei personaggi siano contenti della nuova possibilità di vita che il libro gli ha offerto. Dureranno per sempre? Certo che no. Ma, finché dura il libro, dureranno anche loro. E finché scriviamo libri dureremo anche noi. Il poeta latino Marziale diceva che i buoni libri sopravvivono ai loro autori. Non è sempre così; anzi, molto spesso non lo è. Forse, non scriviamo buoni libri. Ma se non scriviamo, non lo sapremo mai.
scelti per voi
(da “L’Arciprete e la falce e martello”)
Quella mattina, il vecchio arciprete era uscito di buon mattino dalla canonica. Donna Mara gli aveva mandato a dire con Alfia la bizzocca che voleva essere comunicata, a scanso che tirasse le cuoia trovandosi fuori dalla grazia di Dio.
Aveva percorso pochi passi quando, sulla facciata di un pilastrino della piazza, proprio all’angolo con l’ufficio postale, vide uno strano graffito rosso che campeggiava, tutto impettito, luminoso e fresco di pittura.
Si bloccò incredulo a centro di strada, s’accomodò la berretta e strabuzzò gli occhi. Non ci poteva credere. Santissimo divinissimo Sacramento, esclamò attonito, lustrandosi la faccia con la manica della tonaca bisunta, nella speranza che tra uno sfregamento e l’altro l’immagine impressa sul pilastrino vaporasse.
Santissimo divinissimo Sacramento, ripetette fra stizza e stupore, una falce e martello proprio qui, a Milo, e davanti alla casa di Dio! Arcangelo Gabriele, e dov’eri stanotte mentre si consumava questa ignominia contro Dio Onnipotente? Che facevi stanotte, perché stanotte “appa essiri”, visto che fino a ieri sera non c’era. Santissimo Apostolo Andrea, qui i comunisti ce la fanno sotto il naso; che ci fai con quel dito in aria? Negli occhi dovevi infilarglielo a quel fottutissimo figlio di buona madre!
(da “Per Elisa”)
Le dita scivolarono all’infinito, trascorrendo sicure sui tasti in un torrente senza fine, gli occhi fissi sulla tastiera, il viso affilato d’un pallore delicato, che non tradiva emozione, le labbra asciutte, ostinatamente incollate. A che sarebbero servite le parole? La musica parlava per lei. I suoi pensieri volavano confusi sulle note, e man mano prendevano la loro forma nei suoni, nei trilli, negli accordi. Perché aveva scelto proprio questo brano fra i mille che conosceva? No. Non era stata lei a sceglierlo. Le sue dita avevano scelto per lei. Abbandonò il tema nella tonalità minore; si sentì più sicura nella tonalità maggiore che sembrò ristabilire un poco di allegria coi suoi accordi potenti, i trilli, le improvvise fughe. Ma fu solo un istante: la domanda tornò insistente, importuna: para-para-para-para-pa-a-a.
Alfredo era sempre più teso, nervoso allo spasimo. Che cosa voleva dirgli Lilia, se mai volesse dirgli qualcosa? L’intrico di dita si abbandonarono a una serie di accordi dissonanti, come l’irrompere di una tempesta che precipitava sul suo capo. Immobile, guardava fisso oltre tutto e tutti, in uno spazio dove non abitava nulla, nemmeno i ricordi. Cosa sono i ricordi? Ognuno ha i suoi. Perché gli stava facendo questo Lilia? Era un addio? Una promessa? Chiudeva una stagione della sua anima per aprirne un’altra?
(da “Peppino il pazzo”)
La Mara continuava a piangere e a soffiarsi il naso. Filippo borbottava e se la prendeva a tratti coi santi in paradiso; ma poi si pentiva e incartava sulle labbra litanie che sembravano preghiere. Le donne rimaste in piazza, le più vecchie, dicevano il rosario, assieme al prete. Intanto, s’era fatta notte, ma nessuno aveva il coraggio di andarsene a dormire.
Turbati da quell’insolito comportamento dei paesani, i cani sembravano confusi: quelli liberi gironzolavano per la piazza, scuotendo la coda, come cercassero di darsi una spiegazione per quella strana situazione; quelli legati davanti agli orti o agli usci di casa si muovevano nervosi e lanciavano, di tanto in tanto, qualche guaito. Le luci nelle case rimasero accese tutta la notte.
Poi, alle prime luci dell’alba, quando tutti avevano più o meno perso le speranze, il gruppo guidato da Bastianazzo, dopo aver setacciato tutto il bosco del Carlino, arrivò sotto il grande leccio e lì, abbracciati nel sonno, trovarono Andrea e Peppino il pazzo che dormivano beatamente sul più bel prato di margherite che avessero mai visto. Ci misero un lampo a capire. Aveva ragione Peppino: le margherite bisogna sapersele guadagnare.