#1Libroin5W.: Rosella Pretto, “La vita incauta”, Editoriale Scientifica.

#1Libroin5W

Chi?

Questa è la storia di un viaggio, il diario di un viaggio compiuto in solitaria in terra scozzese. Un’indagine e una ricerca shakespeariana su uno dei massimi carnefici, Macbeth. Il viaggio, dunque, è anche un’interrogazione sul male e su quanto possa riguardare ognuno di noi. Ma come ogni diario personale, fa i conti con qualcosa di intimo. Il confronto con quel pozzo nero racconta una storia che chi avrà la pazienza di leggere il libro scoprirà, e che declina le sfumature del male ma dà anche fiato alle trombe dell’amore, di tutto l’amore che si può provare per qualcuno. Di più, essendo personale, il diario dà conto anche delle storie che intessono le fibre di una donna: ecco allora la possibilità di raccontare del nonno, di quanto la sua mancanza abbia inciso nella vita, delle storie familiari che si sono intrecciate al presente dimostrando vero l’assunto che siamo ciò che il passato ci ha resi. Un omaggio, infine, alla letteratura e alla poesia, con tutte le voci che raccoglie e con cui dialoga. Un infra-mondo dove vivere sia una faccenda importante e incauta, e dove i fili di queste voci si attorcigliano e cantano, definendo anche la chance di essere un po’ strambi e dare credito alla propria storia tentando di carpirne il significato. Si uscirà dal viaggio in un certo modo purificati, o spopolati dalle ombre che si addensavano e premevano come buia minaccia sul cuore.

Cosa?

All’interno del libro si individuano due filoni: quello del male, come detto, e la durata, cioè il tempo umano; nel mentre c’è il viaggio, quindi lo spazio che si apre all’esperienza del tempo e alla modalità in cui possiamo vivere la vita cercando gli appigli per comprenderla. L’uomo, se stiamo alle Scritture, piomba nel tempo nel momento in cui cade nel male, vi cede. Il tempo è la conseguenza (leggi ‘punizione’) per il male. Secondo Marina Cvetaeva nascere è cadere nel tempo. Dunque, il male è una nascita? La nascita è male? Per Leopardi sì. Con consapevolezza, però, si può indagarlo. La coscienza è il risveglio dal sonno e dal sogno, l’espulsione nel mondo e il crollo nel tempo che consuma e che logora. Non si ha crudeltà senza coscienza, dice Artaud (a cui la crudeltà serve per “rimettere organicamente in discussione l’uomo, le sue idee sulla realtà, la sua posizione poetica nella realtà”). La coscienza fa quindi prendere atto di questa distanza, di un metro, una possibilità (maledetta) di misura: misurare le cose è mettere sé stessi in relazione (allo spazio, al tempo, all’altro). Se incubotico è il tempo di Macbeth, quello della sua Lady è qualcosa in cui ci si può accomodare, fluido, elastico: non caduta ma abbraccio che va verso il futuro, hereafter.

Quando?

Il viaggio in Scozia è stato compiuto nel 2019 (ma descrive anche un evento traumatico avvenuto nel 2017), prima che il mondo cedesse allo spavento del Covid e della clausura del cuore e dei sorrisi. Entrambi gli anni portano al crollo del tempo. Ma quella per Macbeth è un’ossessione che mi perseguita da circa vent’anni, come il tiranno è perseguitato dai fantasmi della colpa. Il testo ha cominciato inizialmente a lavorare al livello sotterraneo di un fiume carsico che sgretola la pietra dell’indifferenza. Mi sono chiesta, a un certo punto, perché mi sentissi così contigua a un personaggio tanto orribile. Non è una risposta che posso dare (una in realtà – molto dura – la do all’interno del libro), però forse userei l’incipit del Processo di Kafka: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato». È un dato di fatto, la colpevolezza non si discute anche senza averne coscienza. Il destino è imperscrutabile, la mia febbre è il mio destino, dice l’Edipo di Pavese. Edipo ha avuto la possibilità di ascoltare l’oracolo. Anche Macbeth. Ma l’uomo non è in grado di decodificare i messaggi, li travisa. Possiamo dire che è l’uomo a non essere in grado di leggere le traiettorie del cosmo, oppure possiamo convincerci che dietro a tutto ci sia una presenza maligna o anche semplicemente un burlone (ricordiamo quel magnifico e divertentissimo film che è Dio esiste e vive a Bruxelles?) Macbeth se la prende con le streghe, siano maledette e sia maledetta l’aria che cavalcano, dice. Ma è colpa loro? Chissà. Nel libro si incontrano invece tre streghe benigne. La possibilità della riscrittura risuona sempre nel presente di un autore.

Dove?

Nella Vita incauta si parla della Scozia shakespeariana ma anche dei luoghi che ho abitato: è la mia casa fatta di sussurri e di storie (quasi tutte non mie, dicevo nel prologo – se così possiamo definirlo – a questo libro, e cioè quel mio Nerotonia che appunto costituisce un preambolo poetico in cui l’identità dell’autore si rivela cercando però di scomparire nell’atto stesso di mostrarsi. È questa la mia ricerca).

Una delle tappe fondamentali del viaggio è Iona, un’isola delle Ebridi dove per tradizione si seppellivano i re scozzesi. Qui, dove però la tomba di Macbeth non c’è, mi sono finalmente percepita come essere umano in grado di andare oltre i suoi ristretti limiti. E questo implica un senso di forza e di completezza, e un senso di libertà esaltante, ma allo stesso tempo indica anche la visione, la consapevolezza di un enorme senso di solitudine: è un po’ ciò che succede a K in quel gran libro che è Il Castello, sempre di Kafka, dove appunto K, ricercando il suo posto nel mondo – perché è questo che fa –una sera, attendendo Klamm che non si presenta, si trova in un paesaggio innevato, praticamente al buio, nella notte, e gli sembra che tutte le comunicazioni tra lui e il mondo siano state tagliate. E Kafka scrive: “certo adesso era più libero che mai, poteva aspettare lì nel luogo proibito quanto gli pareva e piaceva; si era conquistato la libertà come nessun altro avrebbe saputo, e nessuno aveva il diritto di toccarlo o di scacciarlo e nemmeno di rivolgergli la parola, ma – e questa convinzione era almeno altrettanto forte – nulla era così assurdo, così disperato come quell’indipendenza, quell’attesa, quell’invulnerabilità”. Ma il coraggio della solitudine ricompensa perché porta all’incontro e alla immaginazione: una forza fisica, concreta, un filo che unisce la scrittura alla realtà, diciamo, al presente.

A Inverness, capitale del regno macbettiano invece, ho imparato che ci si può sentire a casa anche in terra straniera. La meraviglia che si prova è tutta la dose di stupore a cui lo scrittore non deve mai rinunciare se vuole scrivere. Scrivere è prima di tutto un atto di scoperta che si compie passo passo, un’indagine o un raid in un territorio sconosciuto che lo scrittore si accinge a compiere in coscienza e senza saperne nulla. Al buio e con la paura di non uscirne vivi. Il rischio porta al dono.

Perché?

Il titolo, La vita incauta, è ripreso da una poesia di Giovanni Raboni contenuta in Quare Tristis (1998). Questo libro fa i conti con il rimorso di non aver inciso nella storia, di non aver fatto abbastanza. E il rimorso porta i morti a riaffacciarsi. La trascrivo:

Mio male, mio bene, così vicini
ormai che tante volte vi confondo,
che risse facevate quando il mondo
era pieno di luce e i teatrini

del cuore non scritturavano ombre
ma angeli e demoni in carne e ossa
e da tutte le parti, nella fossa
di chi rammenta, nella quinta ingombre

di macerie, nei cessi, nel foyer
annerito dagli incendi ferveva
l’incauta vita…Certo, si solleva
ancora il sipario, ogni sera c’è

spettacolo – ma senza vincitori
né vinti, senza sangue, senza fiori.

 

scelti per voi

La mia immaginazione – come quella di Mac­beth, forse – è spesso varco per certe visioni che or­mai costituiscono il mio vissuto. Come la volta che ho incontrato un alieno ad Atlantide. Ora potete dire che io sia pazza, se volete. Un sogno a occhi aperti, o meglio, un esercizio a occhi aperti quan­do, da attrice, frequentavo masterclass che voleva­no implementare la fantasia dell’attore e indurlo a credere nella realtà che stava costruendo, ad ade­rirvi. Ho visto un alieno, gli ho stretto la mano, mi sono guardata allo specchio. Il mio corpo era di­verso, l’ho notato: le mani nodose, i capelli scuri e crespi, un modo differente di tenere le anche e di muoverle nello spazio. Una fantasia, certo. Ma potete davvero dire che non sia anche un fatto, che io non l’abbia provato, che non faccia parte del mio corredo esperienziale? Potete davvero dire che non sia stato stupefacente viverlo e che non sia stata una cosa mostruosa nel senso che abbiamo fin qui discusso?

Non posso affermare che siano immagini prive di contenuto, piuttosto archetipi con cui è intessu­ta la mia fibra. Anche se spesso ne ho avuto paura. Sì, molta paura. Forse perché anch’io ho creduto di perdere il lume della ragione. Altre volte ho spe­rato di riceverne ancora perché la vita fosse più avvincente. Bisogna pur difendersi dalla noia – e io so che ho un ricco mondo interiore, forse tenden­te al dramma. Almeno finora.

C’è anche chi mi supera, in famiglia, ma questa è un’altra storia…

E così mi accingo a lasciare l’albergo per diri­germi a Forres. Impaurita e speranzosa che il viag­gio riservi altre sorprese, altre emozioni.

Se il tempo in questi giorni è stato tutto som­mato clemente, stamattina, appena uscita dalla porta dell’edificio, mi si para davanti un muro di nebbia. Intravedo il castello, la sagoma del castello, e prima le acque opache del Ness, con un senso di irrealtà e fascinazione. Lo so, devo andare là dove appaiono i fantasmi, è giusto che io mi avvii nel regno d’ombra che non distingue le forme. Così, arrivo fino in stazione, prendo il treno e mi lascio andare, mi faccio condurre. L’avanzare del treno, però, scioglie le nubi facendo apparire, qua e là, piccoli fasci d’alberi come grovigli di dubbi, occa­sionali zone scure fitte di punte.

«Sei un pugnale della mente?» aveva chiesto Macbeth al coltello che gli era apparso prima di uccidere Duncan, prima dunque che tutto fosse compiuto…

[…]

… e in una notte come questa, una notte che volge alla fine e schiarisce le ombre, mi rivolgo ancora a te, Mac­beth, tu che hai guadato ruscelli di sangue, che hai tinto di rosso i giorni accumulando orrori e virandoli dal rosso al nero della notte senza fine, tu che accompagni i miei pensieri e che sei il mio inconsapevole confidente, tu di cui la storia ricorda soltanto gli atti crudeli e non dice di un tuo crescere con i genitori, dei passi avanti, dei giochi di bambino, tu di cui non si sa nient’altro che que­sto inoltrarsi nel male, la tua caduta, devi sapere che c’è anche altro al di là dello sperone d’ossidiana lucida che non lascia intravedere nulla, devi sapere che tendendo l’orecchio, quell’orecchio si fa bocca e si spalanca come un vulcano che erutta lava incandescente e rossa come sangue che fiotta, ed è con questo spirito che ti ho parlato immaginandoti simile a me, uomo che trema e non trama soltanto, uomo che stupisce, e prima ragazzo e adolescente e ancora bambino, forse consapevole di avere una mac­chia che non ti lasciava, forse avrai guardato alle tue mani e le avrai trovate sporche, avrai tentato di pulirle ma quell’ombra scura sotto le unghie non si lavava e sei cresciuto con un presentimento di vertigine ma ancora inconsapevole e libero di correre sui prati delle tue terre brumose dove le streghe si nascondono nei vapori che tra­sudano dalla terra, e forse in un momento di cattiveria avrai acchiappato un passero che hai stretto nelle mani e così ti avrà sorpreso una bambina che morì mentre ti guardava stringergli il collo, il becco farsi largo mentre il ghiaccio di un addio ai colori gli artigliava il cuore sotti­le, quello del mio gatto, il mio gatto proprio così, votatosi a salvare ciò che era in me promessa di vita e a trasforma­re le mie ombre, quelle che già mi gravavano sugli occhi e si sono scurite dopo la sua partenza, perché, proprio su quegli occhi io potessi premere le mani per guardare stelle e girandole che si formano nel buio, esplorandone i cunicoli

come in un caleidoscopio

meravigliandomi nel vedere le cose sorgere e crearsi dal nulla, girando e rigirando, accostandosi e perdendosi, combinandosi in cristalli e ghirigori, in forme geometriche e perfette

o come in un cannocchiale

che punti dritto al cielo per indagarne i misteri e i recessi oscuri, i buchi neri dove la materia collassa

 

 

 

 **

Rossella Pretto (Vicenza, 1978) poetessa, traduttrice e scrittrice, ha pubblicato il poemetto Nerotonia (Samuele Editore 2020) e il diario di viaggio scozzese La vita incauta (Editoriale Scientifica, collana S-confini diretta da Fabrizio Coscia 2023), entrambi ispirati al Macbeth shakespeariano. Con Marco Sonzogni ha curato e tradotto Memorial di Alice Oswald (Archinto 2020) e l’edizione delle traduzioni sofoclee di Seamus Heaney, Speranza e Storia (Il Convivio Editore, 2022). Di Alice Oswald ha inoltre tradotto e curato Nobody (ETS 2023). Ha poi curato La Terra desolata di T.S. Eliot nella traduzione di Elio Chinol (Interno Poesia 2022). È presente in diverse antologie poetiche e nell’antologia di racconti curata da Filippo Tuena, L’ultimo sesso al tempo della peste (Neo Edizioni 2020). Suoi articoli sono apparsi su «Alias-Il Manifesto», «Poesia», «L’Ottavo», «Journal of Italian Translation», «Studi Cattolici», «ClanDestino», «Succedeoggi» e «Doppiozero». 

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