#1Libroin5W.: Vladimir Di Prima, “Il buio delle tre”, Arkadia.

#1Libroin5W

Chi?

Il protagonista del libro si chiama Pinuccio Badalà, un aspirante scrittore siciliano che cerca in tutti i modi di ottenere udienza dai grandi marchi dell’editoria italiana. Venti anni e più di speranze disattese, viaggi, incontri, delusioni.

Cosa?

Il romanzo affronta in maniera ironica e sarcastica il profondo declino culturale del Paese analizzando buona parte degli ingranaggi che compongono la grande macchina editoriale. In mezzo c’è la grande Storia che accompagna l’esperienza individuale del protagonista quasi come un treno che viaggia su un binario parallelo. Tutte le vicende editoriali sono realmente accadute.

Quando?

L’idea di scrivere questa storia è stata concepita durante il periodo del Covid. Costretto a casa per le ragioni che tutti noi conosciamo ho pensato di raccontare la mia lunga vicenda editoriale inventando un personaggio che in qualche modo mi rappresentasse.

Dove?

I miei romanzi nascono in un posto speciale, per l’esattezza in Via Dei Ciclamini. Lì sorge una casetta foderata di mattoni e pietra lavica e lì, in una delle stanze che guardano allo Jonio si materializzano i personaggi che poi riporto su carta. Non potrei fare a meno di questo ambiente per scrivere.

Perché?

Quando le cose vanno male (in generale, e non soltanto nello specifico) occorre che qualcuno prenda la parola. Sapevo fin dall’inizio che questo romanzo sarebbe stato scomodo e in effetti credo di essermi attirato le antipatie di molti addetti ai lavori. La verità è spesso inaccettabile. Però qualcuno doveva parlare, raccontare, dire delle molte ingiustizie del sistema. Spero che il mio sacrificio non risulti invano e che i lettori restituiscano dignità di esistenza alla mia vicenda.

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1.

Era un tardo pomeriggio del 23 maggio 1992. Pinuccio volteggiava lungo la fascia sinistra della piazza di Dagala; i suoi dribbling, secchi e precisi, quasi irritanti per l’ostinato delirio di ripetizione, lasciavano sulla mattonella gli avversari, salvo calciare a lato o alto verso una porta ricavata con due pietre. Solo dieci giorni prima il Torino aveva fallito la vittoria della coppa uefa senza perdere una sola partita e fra gli altri ragazzini circolava con ammirazione il nome di Walter Junior Casagrande. Santina invece era stata ordinata coordinatrice per le funzioni del mese mariano e quella, di solito, coincideva con l’ora del rosario.

Solo in casa, Michele ingoiò un’intera scatola di antinfiammatori dopo che seppe dell’attentato al giudice Falcone dall’edizione straordinaria del Tg. Chissà cosa gli passò per la testa tanto da innescargli quell’ardente desiderio di estinzione, chissà quale legittimo pensiero ne accrebbe l’opportunità o addirittura la necessità. Dissero che lo presero per i capelli, agonizzante, con la bava alla bocca e la pelle cianotica. Una folle corsa in ospedale. Giorni di coma farmacologico e di preghiere, prima di ristabilirsi, prima di tornare a fare finta di vivere.

2.

Lungo le strade di Catania non si parlava d’altro. Con le bandiere ammainate alle finestre, con i terrazzi che parevano biscotti sbriciolati per l’incuria d’una città che cedeva lentamente su se stessa, c’era la stessa atmosfera di quattro anni prima, quando, sempre dagli undici metri, una sventurata sfera di cuoio aveva deciso di finire la sua traiettoria fra le braccia protese del portiere argentino. L’uomo più chiacchierato del momento era Roberto Baggio e davanti ai bar, fra una sigaretta e un caffè, la gente mimava le mosse di come avrebbe dovuto tirare. Catania era sempre stata una città di calciatori mancati, di talenti disattesi e precocemente bruciati; una città dove ogni quartiere, da San Cristoforo a Cibali, avrebbe avuto il suo fuoriclasse da serie A  se solo l’avesse accompagnato la testa. Ma la testa, a Catania, non accompagnava mai nessuno; gonfia di fantasie notturne ruzzolava da mattina a sera, e di mese in anno, così per secoli passati e a venire; ruzzolava nel vanto, nell’impresa mai compiuta, nella diceria del mito per poi spaccarsi, tristemente, come un’anguria marcia all’angolo d’un marciapiede puntuto.

3.

Il destino, però, bisogna cominciarlo a fiutare dagli indizi che la realtà spariglia intorno alla vita di ciascuno. Così, se nello scompartimento accanto ribolliva la profumata giovinezza di tre ragazze capitate con altrettanti giovani sconosciuti, nel suo la compagnia offriva il lezzo nauseabondo di due coppie d’anziani che decomponevano con traballanti dentiere il grumo pestilenziale di sesamo e mortadella. Doveva capirlo lì di lasciar perdere tutto, di scendere a Lamezia Terme e tornarsene a Monacella con il primo mezzo utile, fosse pure stata una bicicletta o un recalcitrante mulo. Ma Pinuccio era di pasta dura, ance- strale come il basalto, convinto più di Cristo d’aver scritto il capolavoro ultimo della letteratura mondiale dei prossimi duemila anni e pur d’averla vinta si ingolfava le narici di quel puzzo, e solo quando usciva nel corridoio spiava e respirava, quasi con invidioso livore, la bellezza tenera e le risate delle ragazze di cui, presumibilmente, avrebbero approfittato altri.

4.

La Catania di quella mattina era come una madre che si preparava per andare al mare. I chioschi festanti radunavano frotte di assetati che con un bicchiere di seltz, acqua, limone e sale, parevano tornare alla vita dopo una terribile agonia notturna. I barboncini al guinzaglio delle padrone borghesi pisciavano a ogni angolo buono. Il sole riluceva sulle lamiere del traffico e Gallo faceva leva sul bracciolo per sollevare di poco il sedere e scorreggiare con maggiore libertà.

«Non te ne fai impressione, vero?», diceva. «Il corpo è fatto per sfiatare!»

Pinuccio lo guardava incredulo, quasi pentito d’averlo assecondato. “Chissà dove mi starà portando”, pensava. Poi però gli tornavano in mente i personaggi di Gogol’ e illuminandosi della loro sostanza rafforzava la convinzione che certe cose capitavano solo ai predestinati e lui si sentiva tale.

Quando giunsero in prossimità del palazzo dove aveva sede la casa editrice, l’ingegnere afferrò lo sterzo e costrinse il ragazzo a frenare di colpo, quasi in mezzo alla strada. «Professore!», gridò affacciandosi dal finestrino.

Più in là un uomo, con una camicia bordeaux a mani- che corte, si voltò verso di loro. Non sembrò un movimento fluido, ma abbastanza scattoso come di uno che soffriva di cervicale e faceva fatica ad accompagnare il gesto della testa con naturalezza.

«Oh, carissimo!», esclamò.

Gallo venne fuori dalla macchina e lo raggiunse zoppicando. I due si abbracciarono fraternamente. A farci caso, fra di loro passava un’inquietante somiglianza, e non tanto di colori e carnagione – l’uno come detto aveva tratti più nordici – quanto propriamente di mosse, atteggiamenti, piccole sfumature che non erano piccole imitazioni dell’altro, ma veri e propri movimenti speculari.

«Venga professore, le presento questo mio giovane compaesano.»

5.

In grembo alla grazia di Dio e con qualche soldo imprestato dalla madre oramai giunta a un livello di pietosa rassegnazione, Pinuccio affrontò un lunghissimo viaggio in autobus. Un’altra notte da soldato della speranza in compagnia di operai che risalivano a nord e africani in cerca di terre promesse. Ognuno proiettava il proprio piccolo sogno sul finestrino, ed era chiaro, nitido, netto, finché non gli si abbassavano le palpebre e s’addormentava a bocca aperta; mezz’ora di sonno, forse qualcosa meno, e lì, a ricominciare a sognare a occhi aperti mentre l’Italia passava sopra ponti e gallerie.

Pinuccio si rannicchiò sul fianco destro, e siccome si schifava di poggiare la guancia sul vetro, utilizzò la parte interna del giaccone dove peraltro teneva il portafoglio. Di sbieco, con mezzo occhio socchiuso e l’altro aperto, agganciava le luci di quei paesini incastonati nei monti e pensava: “Chissà se un giorno in quel posto leggeranno mai i miei libri…”. Anche lui, come gli altri, prendeva sonno a intervalli irregolari, svegliandosi di contraccolpo e provando fastidiosissime fitte alla schiena. A ogni sosta negli autogrill scendeva a fare pipì e a sgranchirsi le gambe.

6.

Pinuccio, Milano se la immaginava come una grande cialda ricoperta dai vapori nebbiosi di una colata di orzo. Se la immaginava negli echi delle grandi squadre di calcio, delle passerelle di moda, delle redazioni dei giornali, luogo di culto delle televisioni commerciali e della grande editoria. Se la immaginava semplicemente perché non c’era mai stato prima e quando uno immagina qualcosa è probabile che in un verso o nell’altro ne rimanga deluso.

L’appuntamento con l’agente letterario, fissato per le quattro di un freddo e grigio pomeriggio d’autunno, gli concesse il tempo di una visita al Cimitero Monumentale. In qualche modo i cimiteri l’avevano da sempre affascinato, ma se quelli dell’isola da cui veniva erano perlopiù di povera gente, dunque tombe modeste e cappelle fatiscenti, quello viceversa ospitava sepolture illustri con architetture sfarzose.

Non che la morte a quella latitudine fosse d’altra specie, sia ben chiaro, ma il fasto e la bellezza sottesa a quei sepolcri facevano preludere all’illusione di un prosieguo felice oltre la vita. Nella sua mente di piccolo uomo siciliano, ai beati tormenti per l’imminente incontro si sovrapponevano le immagini del cimitero di Trepunti, dove da tempo erano sepolti i nonni e il padre e il cugino Salvatore; quei viali trascurati dove le famiglie Cavallaro, Coco, Torrisi, Rapisarda e Sorbello venivano schiacciate adesso dai galloni fiammanti dei vari Brambilla, Bocconi, Treccani e Campari. Il proletariato della terra contro l’alta borghesia degli industriali, il fragore dell’oblio contro l’icasticità della grande storia. Finché non gli capitò di visitare la cripta, un luogo buio, tutt’altro che ameno. In mezzo ai fiori che si mangiavano la poca aria, fu preso dal morso maligno dello sconforto: Giorgio Gaber, Gino Bramieri, Alda Merini, Giuseppe Meazza, Pinuccio Badalà. Sì, ci vide inciso pure il suo nome e una fotografia di quand’era bambino, in quella penombra abissale che sapeva più di punizione che di omaggio, che era morte vera, senza riscatto, che sapeva del male più orribile a cui andavano incontro gli uomini e i loro sogni: la dimenticanza.

Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati. Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de “Gli Ansiatici” (2002), “Facciamo silenzio” (2007), Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020), La banda Brancati (2021). Con il suo più recente romanzo “Il buio delle tre” (Arkadia editore 2023) è stato proposto alla 78° edizione del premio Strega e iscritto al Premio Campiello.  Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale.

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