Adriana Tasin, la poesia è una “manipolazione” estrema del linguaggio, dopo c’è il silenzio.

Adriana Tasin (Tione di Trento, 1959, nella foto di Paola Grassi) si è laureata in Scienze Naturali all’Università di Bologna e ha insegnato discipline scientifiche a Madonna di Campiglio, dove tuttora vive. Si è dedicata alla scrittura in forma poliedrica focalizzando negli ultimi anni l’attenzione sulla produzione poetica e ottenendo molti riscontri positivi anche in questo ambito, oltreché in ambito narrativo. Nel gennaio 2020 ha pubblicato la sua raccolta poetica d’esordio, “Il gesto è compiuto”, con Puntoacapo Editrice. L’opera ha ricevuto importanti riconoscimenti in diversi concorsi letterari, risultando in particolare tra i vincitori nei premi: “Cecco D’Ascoli” Opera prima 2020, “Alberoandronico” 2020, “Tra Secchia e Panàro” 2021, “Città di Arcore” 2021. Nel maggio 2022 ha pubblicato la raccolta poetica “Fatti reali immaginari”, con Arcipelago itaca Edizioni. Con poesie e raccolte inedite ha ricevuto negli anni riconoscimenti a importanti premi nazionali quali: “Lorenzo Montano”, “Arcipelago itaca”, “Europa in Versi”, “Bologna in Lettere”, “Gianmario Lucini”, “Gozzano”, per citarne alcuni.

«Scrivo versi che già so ghigliottinati/ in sillabe e apostrofi crudi la censura è mannaia.», versi tratti dal libro “Fatti reali immaginari” di Adriana Tasin (pubblicato da Arcipelago itaca, nella collana “Mari interni”, diretta da Danilo Mandolini, 2022; illustrazione in copertina di Ksenja Laginja) scelti per introdurre la nostra intervista.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Fatti reali immaginari”?

“Fatti reali immaginari” nasce dalla stratificazione di vita, la mia, ma non solo, perché molte sono le storie di altre persone, anche sconosciute, che si sono sedimentate in me. A un certo punto della vita m’è sembrato necessario posizionare lo sguardo rispetto ad accadimenti che forse non erano stati ineluttabili ma anzi, spesso addirittura prevedibili. Quasi un fermo immagine. La scintilla che ha portato a un pensiero più composito, e dunque all’architettura della raccolta, risale a un momento preciso che qui di seguito riporto in uno stralcio di racconto che ho scritto a suo tempo. Mi ero trovata a cena con un gruppo di amici e avevamo cominciato a parlare del capovolgimento improvviso di destino, di eventi che avevano coinvolto nello stesso momento migliaia di persone, il cui destino era così cambiato per sempre. Venerdì 5 luglio 2019 ore 21:30 – Sarche di Calavino – Trento. “I bicchieri dalle trasparenze ambrate al centro del convivio. «Alla salute!» «Alla salute di chi?» chiesi. «Alla salute di tutti!» «Beh, non proprio», dissi piano. Mi guardarono. «Non alla salute delle persone di cui abbiamo parlato sinora. Vi pare?» Le braccia di tutti si ritirarono al petto. I bicchieri ancora colmi. «Serenità collettiva ribaltata in un attimo! Raccontatemi storie in cui sia avvenuto il contrario: tristezza tramutata – in un istante – in gioia collettiva. E poi brinderemo. Vi ascolto». A quasi tutti venne in mente la caduta del muro di Berlino. La fine delle guerre. Felicità come rimozione del male? Qualcuno scosse la testa. Una vincita al totocalcio? Era felicità individuale. Una vittoria ai mondiali di calcio? Era euforia. Felicità no. Lo sbarco sulla Luna? Non cambiò la vita delle persone. E quante altre storie tristi avremmo invece potuto ancora raccontare? Tutti presero a parlare, uno sull’altro, confusamente: Diga del Vajont, Piazza Fontana, Stazione di Bologna, Bataclan, Ponte Morandi… Poi se ne accorsero. E tacquero. Presero a bere, con tristezza, a bere senza brindare.”

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

La vita vissuta è un grande serbatoio da cui è possibile attingere senza posa ricordi, immagini, suggestioni, oggetti simbolici, pensieri inconsci, e non si può disgiungere dal linguaggio. Sono gradualmente passata dal linguaggio parlato a quello scritto, dalla prosa alla poesia. Ho impiegato anni a compiere questa transizione. La poesia è per me una “manipolazione” estrema del linguaggio, è quasi una fine corsa, dopo c’è il silenzio. “La creazione poetica è prima di tutto una violenza fatta al linguaggio” Octavio PazE pur nella mutevolezza dello stile, nella ricerca e nella sperimentazione, nel cambiamento, la voce che cerco è quella che rimane fedele a se stessa, al percorso formativo, che evolve senza tradirsi, e che se lo fa è perché sta andando verso un sostanziale cambiamento di vita.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

“Siamo piccoli arcieri / che puntano all’altrove. / La faretra da cui caviamo i dardi / è la memoria. […]” Questi sono dei versi che si trovano nella mia raccolta d’esordio, Il gesto è compiuto (puntoacapo Editrice, gennaio 2020) e credo che evidenzino due cose: la prima è che c’è, se non altro, l’intenzione dichiarata di provare attraverso la poesia a superare l’invalicabile, quantomeno “in uno scintillamento breve”, la seconda è che i ricordi stessi possono essere frecce al nostro arco che permettono di ricongiungerci in qualche modo all’invisibile, a un altro tempo. Ed ecco dunque che questo gesto di andare a ripescare nella memoria (soprattutto collettiva) torna con forza in “Fatti reali immaginari” e diventa strumento essenziale per affrontare l’invalicabile.

La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

La poesia può colmare, e soprattutto sorprendere, può trattenerti in un luogo straniero, metterti in relazione con il mondo e con ciò che hai di più profondo, può farti dimenticare dove sei, farti entrare in un conflitto senza ferirti, immergerti nell’Oceano Atlantico senza bagnarti, può farti essere l’uomo che non aspetta nessuno all’angolo, la foglia che si inabissa nello stagno, può fermare lo sguardo ai tuoi piedi, alla terra alle formiche alle tue scarpe, o su un oggetto qualsiasi di casa che ti riporta alla quotidianità, può, ritornando in te, farsi visione. Dalla mia poesia Infinito (ti cerco) pubblicata in un’antologia collettanea: “[…] Lo sguardo torna a obbedire ai piedi / – alla loro impronta limitata – / Il pesce trattenuto nell’iride / s’inabissa e si fa / Marco Polo dell’anima”.

La poesia è un “destino”?

Non saprei dire per gli altri, ma per me lo è stato. Quando sono nati spontaneamente dei versi sparsi tra le pagine in prosa di un romanzo che stavo scrivendo, versi che non avevano molto a che fare con il resto, l’ho seguita senza ripensamenti, come dovesse portarmi da un’altra parte e io fossi curiosa di scoprire dove. Ho sempre pensato che i segnali vadano assecondati. Se mi fossi ostinata a finire il romanzo, perché quella era la priorità, avrei perso l’occasione di scoprire molto di me stessa.

E, ancora, con i tuoi versi, la poesia giova a “non assopire il dolore/ e ciò che è stato// per resistere e così esistere.”?

I versi di cui parli fanno parte di una poesia, Parole urgenti, dedicata a Ernesta Bittanti, moglie di Cesare Battisti, figura intellettuale del ‘900, purtroppo poco conosciuta, che ha dedicato la sua vita a difendere i diritti civili, combattere il fascismo e le leggi razziali, ad aiutare sempre chi si è trovato in difficoltà. La scrittura è stata per lei sicuramente una forma di resistenza e di denuncia. Ma, tornando a noi, quando le parole si fanno urgenti e vengono trasposte in poesia è come se tutto si condensasse e noi ne avvertissimo l’intensità. Giova non assopire il dolore e ciò che è stato? Si pone di nuovo qui il tema della memoria. Sì, a mio parere giova ricordare il passato, anche se doloroso, la rimozione è vuoto che fa una disturbante eco nel momento presente.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”? E l’immaginazione? (che sappiamo essere, nel caso del tuo libro, una ‘mediatrice’ di fatti reali).

Forma e suono. Vorrei prima soffermarmi su questi due aspetti. Direi che si compenetrano e che incidono insieme sulla “verità” della parola poetica. Ho letto di recente un articolo apparso su “il T Quotidiano”, scritto dalla poeta Nadia Scappini, in cui lei riportava una riflessione di Cesare Viviani che condivido: “Immaginare la sofferenza di un altro è sempre prova carente, perché manca il peso del corpo sofferente”. Proprio alla luce di considerazioni come questa ho ritenuto opportuno mantenere come registro uno sguardo fotografico, e non un linguaggio che utilizzasse retorica o formulasse giudizi. Solo a volte ho assunto il punto di vista dei protagonisti (per esempio nella sezione Il diario di Julia) utilizzando toni meno secchi, più lirici. Per quanto riguarda la forma delle singole poesie riporto di seguito un paio di esempi. Nella poesia Errore di identità  è molto importante la disposizione nel testo dei nomi dei bambini palestinesi (che giocano a pallone e di lì a poco verranno uccisi). I nomi, da una strofa all’altra, si spostano in avanti e si scambiano di posto. Cerco così di “far vedere” al lettore i bambini che giocano e avanzano con il pallone al piede. Oppure, in Cullata morte alcuni versi si possono leggere sia in orizzontale che in verticale, per rafforzarne il senso. Parlando di suono, il suono della prima sezione, Tempo variabile, non è melodioso, anzi spesso è dissonante, come lo sono molti passaggi descritti nelle poesie dove si passa repentinamente da una situazione di tranquilla quotidianità a una situazione di tragicità. In Diario di Julia invece c’è un crescendo di voce, quasi teatrale, che passa da uno sguardo di superficie durante il viaggio a uno sguardo di profondità al momento dell’affondamento del Titanic. “E l’immaginazione?” che, come giustamente dici tu, agisce da “mediatrice”, quanto incide sulla verità? Ora, parrà strano, ma l’immaginazione, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non l’ho utilizzata per occultare o modificare la realtà, ma piuttosto per ampliarla, rendere la mia poesia (qui di evidente impegno civile) lirica, aumentando il livello di introspezione. Credo sia questo l’aspetto più interessante della raccolta. E chiudo riportando una delle tante riflessioni fatte dalla poeta Camilla Ziglia nella recensione apparsa Su di sesta e di settima grandezza “[…] questa raccolta è una lirica di scena in campo lungo e zumate spiazzanti, sospende la linea del tempo.”

Riporteresti (spiegandoci le ragioni) una poesia (di altri autori) nella quale sei solita trovare “rifugio”?

La chiusa della risposta precedente – sospende la linea del tempo – fa qui da ponte per introdurre la poesia che ho scelto. Direi che più che una poesia rifugio è una poesia riferimento. La poesia che ho scelto è di Wislawa Szymborska ed è intitolata Fotografia dell’11 settembre. La poesia parte dall’osservazione di una foto dal titolo “The falling man”, scattata il giorno dell’attentato terroristico; ritrae un uomo che, per scampare al fuoco, si getta nel vuoto dalla Torre Nord del World Trade Center. Trovo questa poesia esemplare. L’accostamento del richiamo alla quotidianità con la tragedia che sta accadendo è potentissimo. In “Fatti reali immaginari” ho sospeso anch’io la linea del tempo in due poesie, in verità non avevo pensato a questa poesia quando le ho scritte, ma mi piace pensare di averla letta e che mi abbia in qualche modo condizionato. Nella mia raccolta si ritrova la sospensione del tempo in due chiuse, rispettivamente Su rotta equatoriale e Tra Little Boy e Fat Man. Di seguito la poesia di W. Szymborska.

Fotografia dell’11 settembre

Sono saltati giù dai piani in fiamme 
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.

La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.

Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.

C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.

Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.

Solo due cose posso fare per loro —
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

È difficile rispondere a questa domanda, ci sono però cose che a me tornano utili, come ad esempio osservare ciò che in apparenza è irrilevante, che facilmente sfugge; pescare nella memoria immagini, suggestioni, ricordi; leggere e confrontare autori; scrivere e confrontarmi con autori. Penso sia importante partire da ciò che si conosce per trasfigurare la realtà. Di solito conservo ciò che ho scritto e quando vado a rileggere voglio in un certo senso sorprendermi, il testo deve rivelarmi qualcosa. Diversamente lascio andare, o sostituisco, senza ripensamenti versi di cui non percepisco la forza. La parola scritta ha sempre peso, mi vengono in mente i versi d’attacco di Sylvia Plath in Poesie, patate (da: “La luna e il tasso e altre poesie” Edizioni acquamarina, traduzione di Piera Mattei): La parola, definendo, mette la museruola; il verso segnato / spinge via i suoi simili più opachi e da assassino, prospera / in costruzioni che versi immaginati // potrebbero solo infestare. Solidi come patate, / come pietre, privi di coscienza, parola e verso resistono / se gli concedi vantaggio. […]”. A volte mi capita di modificare a lungo un testo e poi, confrontandolo con la prima versione, di tornare alla sua forma originale. Non sono dell’avviso che parole ricercate impreziosiscano il testo: “La grandezza non sta nelle grandi parole, cioè nelle parole che di per sé sono grandi” Léon-Paul Fargue. Penso sia invece importante porre attenzione all’accostamento delle parole, cercare una voce propria e un suono che ad essa corrisponda. Non avere fretta. Ascoltare. Ascoltarsi.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Fatti reali immaginari” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Tempo rivoluzionario è per me la poesia “manifesto” di questa raccolta.

È la prima poesia che ho scritto della raccolta, poesia vincitrice del “Premio Il Sublime”, Lerici 2018. La riporto qui di seguito e poi spiego la genesi, piuttosto singolare, di questa poesia.

Tempo rivoluzionario

 

                                   4 novembre 1966, Trento

                                                           Alluvione

Tempo rivoluzionario.

Occupazione della facoltà

di

Sociologia:

dibattiti

notti in bianco

idee ribadite

cambiate

fossilizzate

e mentre spostiamo il verbo

fissiamo i concetti

e mentre spostiamo il verbo

fissiamo i concetti

lavoriamo per la commissione paritetica

e condividiamo

il potere decisionale –

            venerdì, 4 novembre 1966 –

il fiume Adige

esonda

ritrova l’antico alveo

occupa strade e binari

ondeggia melmoso

colma cantine e botteghe

si butta per strade scoscese

travolge case e persone

sbianca pagine scritte

spegne musica

ignora anime.

Assemblea straordinaria:

l’occupazione ha termine.

In tarda serata

dalle aule di via Verdi

ci riversiamo in strada

come biglie lanciate in una

città senza luce.

            Trento è un’isola.

In un vicolo scuro e offeso

s’intravede una donna

culla una croce

con un Cristo pencolante.

            È diluvio.

Ci salgono alle labbra

invocazioni sommesse

caliamo sulla fronte il cappello

che non s’ha da vedere e sentire

che noi –

            giovani rivoluzionari –

di fronte a tanto vacillamento

ci siamo messi a pregare.

La cosa curiosa è che questa poesia è nata da un racconto lungo che avevo scritto molti anni prima, precisamente nel 2013, in un laboratorio di scrittura tenuto da Giulio Mozzi, quando ancora la poesia era per me di là da venire. È un racconto ispirato allo stile di “Vite di uomini illustri” di Giuseppe Pontiggia, autore che ho molto amato. Durante la stesura di quel racconto, che parlava della vita di un uomo che copriva un arco temporale che andava dal 1945 al 1985, si è rivelato in me l’interesse per la storia, la cura della ricostruzione e della verosimiglianza. Passare da questo racconto alla stesura di Tempo rivoluzionario è stata una sintesi al massimo grado, un salto con l’asta che mi ha portato a intravedere l’altezza, a capire che la poesia può essere, anche solo per un momento, come si diceva, la lingua dell’invalicabile.

La poeta Alessandra Corbetta, nella rubrica Il pensiero di Alex, nel 2019 parlando di questa poesia ha scritto: “Tempo rivoluzionario perché: con stile quasi cronachistico fatto di date, eventi storici e versi interrotti, Tasin offre uno spaccato di intensa alternanza poetica tra micro e macro, tra personale e collettivo, mostrando come la grande storia si leghi alla piccola, e come dentro la piccola ci siano contraddizioni, spesso indicibili, che continuano a rappresentare però la vera faccia umana dell’esistenza. […]”.

Queste considerazioni anticipano e fotografano la sostanza di “Fatti reali immaginari”.

 

 

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