Nostos, ritorno alla parola
Rubrica a cura di Luca Pizzolitto
Enrico Trebbi, E così sia (Book Editore 2025)
Dolori di seconda mano
I dolori vissuti di riflesso valgono
come dolori autentici, oppure hanno
classifiche avulse, contesti di rango minore?
Dolori raccogliticci, di seconda mano.
Un po’ come stare alla finestra
e guardare mentre ti allontani
con le tue lacrime non dichiarate,
i tuoi punti di svolta,
la mia mancata presenza,
le mie palesi avversioni. Un dolore
che non abbia un oggetto diretto,
§ma una sorta di mediatore a sancirlo,
è davvero meno opprimente?
E se il mediatore sei tu? Tu che vali nella vita
più della vita, che mi hai accompagnato
nei miei privati dolori e li conosci
e ne porti il peso? Tu che hai visto con me
i bordi estremi a cui talvolta mi affaccio
e il terror vacui che dimora gli occhi,
quando mi metti sul fianco una mano
e conserviamo il baluginio dei tramonti,
in una dissestata morfologia del soffrire?
Hai notato che nel tempo il dolore
si accumula, si stratifica quasi come
terreno alluvionale, mentre la gioia no?
Come se non fosse possibile
immagazzinarne riserve? Quasi
un pendio innevato di fresco, pronto
a tuonare a valle al primo rialzo termico.
La sofferenza è ben più tenace,
aderisce meglio, non si scioglie
con le piogge, non si decompone.
Sai bene che quasi sempre è più semplice
avere a che fare con i dolori propri
che con quelli delle persone amate.
Il privato dolore, conoscendosi un po’,
diventa alla lunga affrontabile. Non quello altrui.
Sai che detesto vederti afflitta.
In quest’ora della vita e del giorno
vorrei una vera dimenticanza,
come non avessimo vissuto mai.
*
La neve, ieri
Ieri mattina la neve,
una tarda neve pesante e sfinita.
Oggi le prime gemme,
i primi fantasmi delle stanze.
Resteranno a ricordarci la nostra follia,
le mani strettamente avvinte
la fragilità di queste stagioni
il terrore di svegliarsi.
Tu in casa, pur seguita da un’ombra,
a cercare di tenermi e a sorridere
i tuoi tristi sorrisi,
quelli che mi accolsero ai nostri
così recenti inizi. L’ombra,
che io solo vedo, non esce con te.
Resta nella casa a farmi
una cattiva compagnia tormentata.
E non è ombra da potersi cancellare.
Si ferma sui muri, sul pavimento
appena levigato e caldo.
L’ombra rimane con me
a ricordarmi ciò che non era sperabile
ed è oggi reale, a dirmi che nulla
è reale per sempre, nemmeno
nel nostro brevissimo, umano sempre.
*
Madre
La finestra dava sulla strada.
La guardava da sotto.
La strada non aveva nome,
se non quello di madre.
Mia madre era il telaio
di quella finestra. Era il limite.
Il baluardo. Dalla strada
il buio imperversava. Lei
accendeva le deboli luci
che illuminavano il nulla.
Il nulla tracciato con farfalle di neve.
Si sognava senza sonno, nella casa.
Imprigionato nella casa, volevo
essere recluso per sempre.
Da quella stagione venne il sentimento
dell’ostilità del fuori, la clausura.
Quando mio padre rientrava
apriva veloce la porta (mia madre
lo stipite, mio padre i cardini).
Bastava a far entrare nel nulla
a folate veloci di gelo. Bastava
a capire che fuori non ci volevo stare.
La casa non è sigillata.
Io sono vivo.
I batteri, i virus entrano.
La protezione sarebbe il rimedio.
Non c’è protezione da sé stessi.
*
Linea di tempo
Non m’interessa la cronologia,
il susseguirsi anonimo di eventi,
sapere dove collocarli.
M’interessa la memoria,
l’avere dentro, intrecciato
al midollo spinale, senza
eco di tempo, lo splendore vissuto,
l’angoscia diffusa, il battito d’ali,
le sequenze d’amore e paura,
il rovescio della foglia caduta
dove leggere la vita al contrario.
Non m’importa il quando,
m’importa il perché. Posso
confondere i giorni, gli anni.
Non voglio confondere i motivi.
Una tazza di caffellatte col pane
da quanto manca alla mia tavola?
Dalla tavola della memoria
non è mai mancata, non sono mancati
gli aritmetici coltivi nelle golene del Secchia.
Le falene a ruotare intorno
all’unica lampada in cucina, giallo maturo,
trenta watt o forse meno,
le sorelle che mi accolgono,
pur non essendo sorelle, il profumo.
I piselli crudi, appena colti.
Ora i morti, i miei morti, cadono come neve.
Volteggiano leggeri nel poco buio
di una notte qualunque, toccano terra,
la terra fredda che li accoglie,
su cui si fanno cumuli. Domani un merlo
verrà a picchiettarli di becco e zampette.
Nevicano, i miei morti.
Sono io la loro fredda terra.
In quale orizzonte si trovano?
L’osso di pesca, la mandorla tossica,
che importa se mai la mangerò.
—
Enrico Trebbi è nato a Modena, dove risiede, nel 1953. Ha pubblicato alcune plaquettes di poesia insieme ad Alberto Bertoni. Sue poesie compaiono in diverse riviste ed è presente con proprie sezioni in antologie collettive. Insieme ad Alberto Bertoni e al saxofonista Ivan Valentini ha inoltre pubblicato 2 cd di poesie e musica: “La Casa Azzurra” (Mobydick, 1997) e “Viaggi” (Arx Collana & Book Editore, 2001). Nel 2020, con Bertoni, Valentini e la partecipazione del chitarrista e compositore Luca Perciballi, ha dato vita alla realizzazione del cd “Fumana” (2019 – poesie in dialetto modenese e musica), e dell’album “Intersezioni” (2022 – solo in formato digitale). Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesia:
-“Un resoconto frammentario” (Book Editore, 2003), finalista Premio nazionale di poesia San Pellegrino 2004;
-“L’incertezza del volo” (Book Editore, 2017), vincitore del Premio nazionale di poesia Caput Gauri 2018 e finalista Premio internazionale di poesia Gradiva 2019 – State University of New York, Stony Brook.







