di Paolo Sessa
Cosa sono i ricordi? Sono immagini impresse da qualche parte nel nostro cervello, tracce mnestiche strutturate sotto forma di sinapsi che collegano neuroni e più spesso gruppi di neuroni. I ricordi sono dentro di noi e solo per approssimazione linguistica diciamo che abbiamo dei ricordi, come diremmo che abbiamo cento euro in tasca o mezzo chilo di pere in frigo. Per la precisione, noi non abbiamo ricordi, noi siamo i nostri ricordi.
Dove stanno i nostri ricordi, in quale parte del cervello si annidano? Non lo sappiamo: è molto probabile che stiano ovunque e plasmino tutto il nostro cervello al punto tale che se dovessimo dire chi siamo, potremmo ben dire che “siamo quello che siamo diventati”, che cioè siamo quello che i nostri ricordi fanno di noi.
Siamo le nostre esperienze, il nostro vissuto pregresso, le persone che abbiamo incontrato, i libri che abbiamo letto, le emozioni che abbiamo provato; non necessariamente tutte queste cose sono mantenute intatte nel nostro corredo sinaptico; anzi, è vero il contrario, le sinapsi si rinnovano continuamente, muoiono e si ricompongono sotto l’avanzare implacabile degli eventi.
Alcuni di questi ricordi sono più potenti e la loro forza è certamente determinata dalla quantità e qualità di coinvolgimento emotivo generato dagli eventi che li hanno prodotti; questi ricordi, lungo una scala continua e sfumata, arrivano a strutturarsi in memoria facendo massa e modificando la nostra epigenetica, per cui continuamente diventiamo altro da ciò che un tempo eravamo.
I nostri ricordi non hanno, però, a che fare solo con ciò che abbiamo direttamente sperimentato: questi sono probabilmente i ricordi che meglio abbiamo fissato nella nostra testa, creando connessioni più stabili fra un numero maggiore di neuroni e di sinapsi. Ci sono ricordi che ci derivano da eventi che abbiamo solo sentito raccontare, che non abbiamo direttamente vissuto; anche questi, in relazione alla quantità e qualità delle emozioni che sono stati in grado di attivare, costituiscono materiale importante per la costruzione della nostra memoria individuale.
Cos’è la memoria, dunque? La memoria è l’insieme variamente strutturato dei nostri ricordi, persino di quella tipologia di ricordi che chiamiamo “falsi ricordi”, cioè il ricordo di cose non proprio vere o reali, ma che nella nostra mente si sono assestate come tali. Tutto ciò accade sempre e a tutti; i poeti ne sanno qualcosa quando danno corso al loro arsenale immaginativo. Tuttavia, non bisogna credere che i falsi ricordi siano falsi del tutto, perché l’immaginazione lavora su un materiale che in un modo o nell’altro è già dentro di noi sotto forma di ricordo “vero”.
Esiste anche una memoria dei nostri muscoli che si servono di una discreta quantità di neuroni per costruire questo tipo di memoria. È una memoria cellulare. Se non esistesse, dovremmo ogni volta imparare ex novo a camminare, ad andare in bicicletta, a imboccarci, a fare la mezza maratona.
Ovviamente, non è di questo tipo di memoria che vogliamo parlare, anche se la base fisiologica nella costruzione della memoria muscolare e della memoria emotiva può essere estremamente simile. Alla base di questa fisiologia della memoria c’è un’arte, nel suo significato etimologico, c’è un fare che ubbidisce a procedimenti, chimici piuttosto che elettrici, e quest’arte spesso opera (per fortuna) in modo automatico e irriflessivo, ma spesso va esercitata in modo consapevole.
Abbiamo il dovere di esercitare la nostra memoria. Questo esercizio aiuta nella costruzione del Sé: siamo ciò che la nostra memoria ci fa diventare. Allora, l’ars memoriae non è più semplicemente artificio mnestico, utile a ricordare date, numeri, informazioni, ma recupero del nostro bagaglio emotivo che continuerà a guidarci nelle nostre scelte. Quante volte diciamo con amarezza: “Purtroppo l’uomo ha memoria corta”, o “Ricordati da dove vieni”, oppure “L’oblio è anticamera della morte” o ancora, “Non c’è futuro senza passato”, e via di questo passo.
Queste memorie individuali costruiscono persone e quando esse si fanno memorie condivise attorno a valori, si fanno memoria collettiva che produce cultura. È da qui che nasce l’identità, il senso di appartenenza a una comunità, il campanile, l’agorà come luogo di interscambio delle memorie individuali e della discussione.
Perché possa farsi cultura, visione del mondo, la memoria collettiva ha bisogno di essere nutrita e rinnovata. Cosa fare per esercitare la nostra memoria, particolarmente in quei momenti della storia in cui sembra eclissarsi? Riattivare il flusso dei nostri ricordi per costruire nuove mappe per nuove rotte nel viaggio che è la nostra vita. E l’agorà, come insieme di occasioni per nuove relazioni, è sempre un buon punto di partenza.
Lo studio della storia o delle storie, una vecchia foto, una lettera, un documento ingiallito, il racconto di un fatto lontano possono essere straordinarie occasioni per rivitalizzare i nostri ricordi e magari aggiungerne altri per rafforzare la nostra memoria individuale e quella collettiva.
« Où sont le neiges d’antan ? ». Sembrano cose lontane, ma la cultura di un popolo e la sua identità sono anche in queste “nevi di un tempo”, nei volti dei nostri avi che riemergono come da una galleria del tempo, negli angoli, nelle strade, nei crocicchi che videro uomini e cose, donne, vecchi, bambini, gente al lavoro, vivere, amare, soffrire, morire. Solo se siamo disposti a nostra volta a vivere, amare, soffrire con loro, potremo tenere saldo il legame, a riannodare il filo invisibile che ci lega alla storia.
Questa Mostra realizzata dagli studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Catania è un tentativo nobilissimo di rivisitare queste nevi di un tempo per rafforzare una memoria collettiva. Per fare questo, gli studenti hanno dovuto accogliere l’invito a tuffarsi in un mare che non conoscevano, apparentemente senza vita, privo di moto ondoso; ma, dal momento del tuffo, tutto ha ripreso a vivere, onde maestose si sono alzate a creare emozioni nuove e a ridare vita a volti e luoghi che facevano solo finta di dormire o di essersene andati.
Aprire un archivio è come scoperchiare un vaso di Pandora: non sai mai cosa potrà accadere. Ed ecco che, come in un film, storie cominciano a dipanarsi di nuovo, l’una dentro l’altra, volti riemergono da un passato che si rifà presente: Mara prova di nuovo a sposarsi, don Puddu a costruire la sua teleferica, bambini si riaggrappano al cannolo d’acqua del fontanone, il fischio del bastimento carico dei nostri migranti si leva ancora alto nel cielo accanto alle grida di disperazione di nuovi migranti, i nostri compaesani ricominciano speranzosi a tagliare canna da zucchero in Australia, al bar di Viola si ricomincia una mano di scopa, il barone von Gloeden finalmente si gode la piazza che ai suoi tempi non c’era (ma ora c’è), e ricomincia, mesto e fiducioso, il mormorio delle preghiere davanti alla colata del 1950.
E riappaiono i luoghi, come persone vive, l’abbeveratoio al suo posto sull’antico Canale, il bar di Viola addossato alla chiesa, la casa Carpinato, dirimpetto, la piccola agorà adagiata di fronte al mare. E, poi, il mulino che noi non vedemmo mai, con la sua saja non più monca e la sua botte dell’acqua che, per un prodigio impastato di carte e di memoria e di tecnica, hanno ripreso a macinare grano e segala per bocche affamate.
Fantasmi? Forse, nel senso che appaiono, si mostrano e si rivestono della nostra immaginazione. Ma fantasmi vivi, che si fanno strada a gomitate per riemergere dal nostro archivio e dalla nostra memoria perché un archivio non è mai un magazzino di cianfrusaglie, come non lo è la nostra memoria. E non lo è nemmeno una Mostra, dove tutto sembra ordinato per appagare la vista, ma dove tutto, al tempo stesso, offre occasioni per nuove e feconde riflessioni e i morti tornano a vivere e a dire la loro. Un archivio, la memoria, una Mostra sono luoghi dove ancora, a saperla cogliere, c’è tutta la nostra vita.
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Ars Memoriae è il titolo della mostra collettiva del Biennio di Fotografia dell’Accademia Belle Arti di Catania a cura di Carmen Cardillo. Il progetto Ars Memoriae, promosso dalla Scuola di Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Catania in collaborazione con il Comune di Milo, mira a valorizzare e conservare gli archivi fotografici vernacolari del territorio etneo. La Scuola di Fotografia, attiva in questo ambito dal 2008, ha integrato nel suo curriculum la materia di Archiviazione Fotografica, guidata dalla docente Carmen Cardillo, un’artista e studiosa esperta nel campo. Questo progetto punta a trasformare la lettura socio-antropologica ed economica del passato in nuove potenzialità tecniche ed espressive per il futuro. Gli archivi fotografici vernacolari, ricchi di informazioni preziose, sono diventati oggetto di grande interesse antropologico poiché permettono di ricostruire le storie delle comunità locali e i loro processi evolutivi. Gli studenti hanno lavorato sull’archivio Sessa-Arcidiacono, che contiene fotografie storiche di Milo, una comunità montana famosa per essere stata meta di artisti e intellettuali. Grazie al sostegno del Comune di Milo, gli studenti hanno potuto esporre i risultati del loro lavoro nel Museo Virtuale locale.
Inaugurazione 18 luglio 2024 ore 19.00
Autori in mostra fino al prossimo 30 luglio ore 18 (finissage):
Giuseppe Calabrese
Gabriele Capodanno
Martina Flores
Paola Gusmano
Latorre Deborah
Guarnera Roberta
Deborah Longo
Edoardo Orlando
Alessandro Rizzo
Lorenza Maria Mattia Romano
Carmelo Stancampiano
Sofian Tiznaoui
Erica Trovato
Andrea Valisano
Giulia Vecchio