Alessandro Rivali e “La Terra di Caino”.

V

Aveva sfogliato l’albero del male
e ora guardava la fuga dei secoli.

Luca annotava parabole:
la tenerezza di Emmaus,
il conforto della cena al tramonto.

Ricordò l’estremo perdono,
l’assassino straziato dai corvi:

“Ricordati di me,
quando stasera sarai nel Regno.”

E all’imbrunire il ladro era un ibis,
acrobata tra le acque del paradiso.

C’era nebbia sulla fine della storia
ma confidò che l’ultimo atto
fosse un vento leggero,
una carezza sui mandorli in fiore.

 

Alessandro Rivali da ‘Il sogno di Caino’, La Terra di Caino (Mondadori 2021)

Nella tua ultima raccolta poetica, La terra di Caino (Mondadori, 2021), metti in pagina il viaggio purgatoriale del protagonista biblico alla ricerca del perdono e della riconciliazione. Sembra quasi che per tornare a riappropriarsi del tempo originario in cui la pienezza dell’essere può dispiegarsi, Caino debba attraversare lo spazio. Ma questo spazio, perlopiù, è incubo e male. «Regredirai alla stagione dell’ansia, / avrai in dono una potenza guasta / e non saprai amare una donna», fai dire al serpente che si propone di accompagnare Caino. Caino deve spurgare il male, vederlo tutto, abbracciato però all’idea del bene. «Sarà pura la qualità dell’affetto / per l’uomo che esamina di notte / la tessitura dei suoi errori. // Anche questo insegnava Pound / nell’arsura della gabbia pisana». E a Pound, ricordo, hai dedicato il bel libro di interviste fatte a Mary de Rachewiltz (Ho cercato di scrivere Paradiso, Mondadori 2018). Bisogna attraversare lo spazio e la notte, quella notte oscura di cui parlava Giovanni della Croce. Solo così tempo e spazio possono coincidere, tenendo a mente che «la bellezza era un riparo / orientava gli occhi al futuro». «Era la via della spoliazione». Molti dei luoghi percorsi sono città dell’ombra, cimiteri, «il cammino dei morti / il ponte con quanto era stato». Il ricordo permette di ricentrarsi sulla verticale metafisica che può porre termine al «lungo corteo dei senza padre». Abitiamo un mondo in cui lo spazio è stato interdetto e che porterà sicuramente conseguenze a livello di relazione, lo sta già facendo: la stagione dell’ansia di cui parli è il nostro presente. D’altra parte, come afferma Jean-Luc Nancy in Essere singolare plurale, «quella che abbiamo vissuto è stata la storia di una progressiva saturazione dello spazio terrestre. […] è venuta meno quella coscienza di conquista, di espansione e di scoperta che aveva finito per coincidere con la stessa autocoscienza dell’Occidente. […] L’estensione ha cessato di essere espansiva, per diventare semmai intensiva». Genera angoscia e lotta contro l’angoscia, questo ripiegamento sullo spazio, per Nancy. Tornare a esplorare la ciclicità del tempo, allora, secondo il tuo Caino, farlo con le parole della poesia, luogo deputato della possibilità e dello sguardo che scardina il caos asfissiante dell’esistente, può aiutare (e come) l’essere umano a ritrovare un respiro più lungo e un baricentro, un ubi consistam?

Come ho imparato da Giampiero Neri (Erba, 1927), decano della nostra poesia, si scrive sempre per nostalgia, per qualcosa che manca, un amore, un’amicizia, una stagione della vita, una “città dell’anima”…. La poesia cerca di ricucire la lacerazione. Il mio Caino, lontano da quello della Genesi, è un viator fasciato di nostalgia. Si pente del fratricidio quando ha le mani ancora insanguinate, vorrebbe riascoltare la voce di Dio Padre, come i racconti dei suoi genitori sull’Eden perduto per sempre e per sempre inseguito. Vorrebbe incontrare, almeno nell’ultimo tratto della vita, l’abbraccio del perdono. Caino è un’anima in esilio che cerca di placare l’arsura con frammenti di paradiso “accessibile”: gli occhi di una donna, la contemplazione della natura, le relazioni autentiche, la bellezza artistica, che spesso incontra in luoghi a prima vista impoetici come i grandi cimiteri d’Europa, che ho sempre considerato degli straordinari incroci di storie (del resto, un autore che amo come Cees Noteboom in Tumbas ricorda che ogni cimitero è un romanzo…).

Caino cerca soprattutto, come direbbe Viktor Frankl (autore dello straordinario Uno psicologo nei lager) un orizzonte di senso per attraversare il buio.

Dopo la pandemia, la nostra condizione forse non è diversa da quella di Caino: abbiamo visto tutto l’arco delle possibilità di risposte di fronte al male, atti di estrema generosità intrecciati a quelli di egoismo e sfruttamento. E, tra le cicatrici più profonde, quella di considerare l’altro come un possibile nemico, un untore.

Prendendo a prestito le parole del sociologo Pierpaolo Donati, direi che siamo nel tempo delle “relazioni ibernate”: dobbiamo attraversare la Terra desolata in una rinnovata età dell’ansia. Concordo appieno con la bella suggestione della tua domanda. La poesia (e l’esperienza artistica in senso più ampio) è sempre apertura alla possibilità. È “abitare la possibilità” come direbbe Emily Dickinson.

Mi hanno sempre affascinato i poeti in cerca di risposte di fronte al buio: la saga di Gilgamesh, con la sua sete di eterno, l’inquietudine di Giobbe che s’interroga sul dolore ingiusto, fino a Ungaretti che si aggrappava alla poesia negli orrori della trincea o di fronte alla morte del figlio (il suo Dolore è un vertice del nostro Novecento).

Per attraversare il deserto serve una buona bussola.

Credo che la poesia, nella sua più forte accezione di ricerca di verità, possa essere un’ottima stella polare. In fondo, la poesia si chiede che cosa sia l’uomo. Come l’uomo possa essere felice. Cosa significhi una vita autentica. Domande ustionanti nel nostro tempo segnato dalla prestazione. Restando all’immagine del viator nel deserto, penso che chi scrive poesia (ma anche chi legge poesia) abbia importanti risorse nel suo “zaino”: la consuetudine con il silenzio (contro la signoria della fretta), la riflessione sulle Questioni ultime (per mettere in secondo piano tanti idoli del nostro tempo, edonismo in primis), l’attenzione all’uomo e all’importanza delle relazioni (per attenuare l’individualismo). Non è un caso che i regimi totalitari cerchino di spegnere subito la voce dei poeti, antenne particolarmente sensibile quando viene calpestata la dignità dell’uomo.

Mi piace in effetti pensare alla poesia come a una terra di libertà.

Nella pandemia sono ritornato su due testi in modo quasi ossessivo. Mi hanno aiutato. Una è la meditazione in versi sulla “sconfitta” di Adam Zagajewski, in cui, tra l’altro leggiamo:Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure” (Dalla vita degli oggetti, Adelphi, 2012).

L’altro testo è I giusti di Borges, una toccante poesia sull’importanza dei dettagli, sull’attenzione alle piccole cose, in fondo un elogio della vita contemplativa: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. / Chi è contento che sulla terra esista la musica. / Chi scopre con piacere un’etimologia. / Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi. / Il ceramista che intuisce un colore e una forma. / Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace. / Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. / Chi accarezza un animale addormentato. / Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. / Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson / Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. / Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo” (La cifra, Adelphi, 1981).

In questi frammenti è racchiusa tanta verità sul senso e sulla possibilità della poesia, che forse non potrà salvarci, ma come diceva il grande e dimenticato Saint John Perse, ci aiuterà a vivere meglio.

 

 

Alessandro Rivali è nato a Genova nel 1977. I suoi libri di poesie sono La riviera del sangue (Mimesis 2005) e La caduta di Bisanzio (Jaca Book 2010). Ha pubblicato i libri intervista Giampiero Neri. Un maestro in ombra (Jaca Book 2010) e Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri (Ares 2020). Ha curato le lettere inedite di Eugenio Corti dal fronte russo (Io ritornerò, Ares 2015). Ho cercato di scrivere Paradiso (Mondadori 2018) raccoglie le conversazioni con Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound.

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