Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria

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Dall’Introduzione di Matteo M. Vecchio

Ho riletto a fondo, sotto la pagina, il Flaubert di Antonia Pozzi, uscito postumo nel ’40, con una premessa di Banfi; è ben più d’una tesi di laurea, è un progetto di vita, non per colpa sua mancata. A proposito, consiglierei di rieditare il suo Flaubert; e insieme, già che ci siamo, il Proust di Morselli, edito nel ’43, sempre con premessa di Banfi. Non è il suicidio a riunire i due autori, e questi due precocemente esemplari saggi critici; anzi, è la loro lezione di vita, e il nostro rimpianto comune, a metterli faccia a faccia.

Trova dunque compimento, con l’uscita della presente edizione del Flaubert di Antonia Pozzi, l’invito di Giancarlo Vigorelli, il quale già nel 1989 faceva notare, tra le iniziative editoriali che avevano coinvolto alla fine degli anni Ottanta l’opera della poetessa, la lacuna della mancata ripubblicazione della tesi di laurea, discussa con Antonio Banfi nel novembre 1935 presso l’Università degli Studi di Milano ed edita originariamente – per iniziativa e cura di Roberto Pozzi – da Garzanti, nel 1940.

Al Flaubert Vigorelli accosta, significativamente, il Proust di Guido Morselli. Accostamento legittimo, dacché i due volumi risultano accomunati da riscontrabili attinenze: l’editore, la contiguità temporale della pubblicazione (ma non della stesura né delle circostanze di compilazione), la presenza di una nota introduttiva di Antonio Banfi, e soprattutto l’originalità della lettura, che isola i due studi e li permea di una tensione esistenziale che rende avvertibile il dinamico fluire di istanze esistenziali ed estetiche, e ne fa, come scrive Vigorelli, programmi fondativi, legittimazioni di personali scelte etiche e culturali, sebbene differenti, e tuttavia congruenti nella comune e consapevole disposizione, in una reciproca permeabilità di piani, di «scrittura come vita», declinazione più fabbrilmente connotata del «letteratura come vita» proposto da Carlo Bo. Ad accomunare i due saggi, inoltre, è l’attenzione, la tensione etica – d’ascendenza banfiana – ancor prima che intellettuale, tutt’altro che scontata (negli anni del fascismo e dell’inasprimento sempre più coercitivo e liberticida del regime dittatoriale), verso la cultura europea, esemplificata nelle scelte tematiche e contenutistiche e nella radicale obiettività con cui queste vengono perseguite e condotte. Il problema affrontato, in entrambi i lavori – ai quali potrebbero essere affiancate, limitando la campionatura, la dissertazione su Guido Gozzano di Vittorio Sereni, o quella su John Keats di Daria Menicanti (di cui Luciano Anceschi ha conservato copia), o ancora l’esemplare tesi proustiana di Lorenza Maranini, già allieva di Giuseppe Antonio Borgese, discussa con Banfi nel 1932 ma di gestazione borgesiana, edita nel 1933 presso Novissima, Firenze, con il titolo Proust. Arte e conoscenza –, slitta dall’essere squisitamente letterario per porsi entro un orizzonte più complesso e composito in cui convivono piani molteplici; piani analitici che si armonizzano in una analisi, pur letterariamente condotta, nella quale sono introdotte categorie metodologiche d’àmbito filosofico. Tuttavia i piani non corrono paralleli, né si intersecano sporadicamente in un confluire momentaneo; si fondono bensì in una complessa trama, costituiscono un continuum interpretativo unitario e metodologicamente coerente rispetto al livello e contenutistico e, appunto, analitico ed ermeneutico. La Pozzi e Morselli, quindi, non intendono risolvere un problema esclusivamente letterario; affrontano anzi una più complessa problematicità nella quale, come scrive la Pozzi a Banfi nel settembre 1935, non il «problema risolto», ossia la compiutezza dimostrativa dell’opera e l’effettiva dimostrabilità della tesi, fonda e giustifica la riflessione, bensì i modi di «risoluzione del problema», la dinamicità del farsi dell’opera, «fabbrilmente» (à la Adelchi Baratono) avvertito e ratificato, e la possibilità che essa rifletta i propri esiti intellettuali e, nel legittimante travaglio del farsi, etici: il costituirsi esistenziale ed eticamente fondativo dell’opera entro la vita, il suo stesso attestarsi mediante il e nel lavoro critico.

È significativo, in questo senso, che nella bibliografia del Flaubert rientrino, oltre all’Ottocento europeo di Borgese, l’Estetica di Adriano Tilgher e Il mondo sensibile di Adelchi Baratono, editi, questi ultimi, rispettivamente nel 1931 e nel 1934: il che, se da un lato fa emergere la perizia d’aggiornamento bibliografico dimostrata dalla Pozzi – allieva, nel 1930-1931, anno d’immatricolazione presso l’ateneo regio di Milano, di Piero Martinetti (Filosofia), di Giuseppe Antonio Borgese (Estetica), di Emilio Morselli (Pedagogia) –, dall’altro attesta la volontà, attraverso uno spaziante reperimento delle fonti, di un sottile ma consapevole superamento delle ipostasi dell’estetica crociana, e l’adozione di metodologie  d’indagine altre rispetto all’idealismo (nella sua declinazione anche gentiliana), per quanto Benedetto Croce (e, ancor prima, Francesco De Sanctis) rientri, autorevolmente, nel composito nòvero bibliografico del Flaubert. Il quale Flaubert, tuttavia, per la sua stessa natura strutturale – l’analisi diacronica di una formazione letteraria – e per il pregresso sprone ideologico, si discosta dalla cristallizzata assolutezza crociana, riconoscendo quale decisiva l’analisi di àmbiti creativi, sottesi all’opera d’arte e di fatto interni alla sua stessa ragion d’essere, che l’estetica idealistica rimuove e rigetta.

E, va da sé, agisce – pur non dichiarata –, nel midollo compositivo e ideologico del Flaubert, la riflessione di Antonio Banfi, che emerge nella cifra operativa interna al nucleo stesso del lavoro, nello sprone pedagogico – dalle connotazioni maieutiche – a esso sotteso. Se risale all’anno accademico 1931-1932 il primo corso – in Estetica, «Problemi di un’estetica filosofica» – che, di Antonio Banfi, Antonia Pozzi segue – allorché, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo milanese, andava formandosi quella «singolare generazione» (ampia e composita, di matrice e filiazione già martinettiana e borgesiana) identificata nel 1951 da Luciano Anceschi (lui pure, prima che di Banfi, fedele allievo di Borgese) –, è nella tarda primavera del 1934 che, verosimilmente, la studentessa concorda con il docente l’argomento della tesi di laurea, al termine peraltro di un anno accademico, il 1933-1934, particolarmente denso (sebbene lacerato dalla prima edizione, che occupa l’intero mese di aprile 1934, dei Littoriali della Cultura), nonostante l’esiguità quantitativa dei corsi effettivamente seguìti: le lezioni dedicate da Vincenzo Errante a Rilke – alle quali la Pozzi assiste in qualità di uditrice –, il corso banfiano di Storia della Filosofia vòlto a delineare la «fenomenologia della personalità» di Friedrich Nietzsche, il corso (biennale, espanso all’anno accademico successivo) che François Remigereau riserva all’analisi dell’opera complessiva di Gustave Flaubert. Già a partire dalla fine del 1931, dunque, Antonia Pozzi si accosta agli assetti metodologici e alle categorie analitico-interpretative proposti da Banfi, assorbendone – pur problematicamente – le articolazioni in una complessa e potenzialmente distorsiva assimilazione che tocca il proprio apice nelle annotazioni diaristiche del 1935: le quali possono rappresentare, del Flaubert, un’officina etica, ancor prima che elaborativa tout court, in cui lo snodo concettuale che costituisce l’oggetto della dissertazione viene posto dalla Pozzi in fertile quanto problematica (ed esistenzialmente connotata) continuità rispetto alla propria esperienza personale (anche, e soprattutto, creativa), in un denso stratificarsi di istanze esistenziali e intellettuali. Entro, peraltro, il nòvero riflessivo di altri, pur differenti, problematicismi – Enzo Paci, Remo Cantoni, Vittorio Sereni –; entro l’ègida pedagogica, dagli allievi non sempre irenicamente percepita, di Banfi. Ègida, tuttavia, dalle imponenti ricadute maturative, non dalla Pozzi sempre consciamente avvertite, le quali – tra 1934 e 1935, nel concludersi e nel ricapitolarsi della parabola universitaria – investono di nuova luce e percorrono di rinnovata linfa creativa, anche auspice Flaubert, la sua produzione poetica.

Se nel gennaio 1933 la Pozzi associa alla poesia una funzione essenzialmente catartica (pregresso retaggio classico, rilkianamente mediato) dell’elemento biografico – nel solco di uno specchiarsi di esistenza e scrittura

[(]la poesia […] ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita [) –,]

questa specifica connotazione fa emergere – pur nella cristallizzazione sublimatoria – l’acuta componente sperimentale dell’ideologia poetica pozziana. La molteplicità (ancora nel 1933 pervasa da lacerazioni e da mancate suture) di ascendenze in essa confluite si sintetizza con più spiccata padronanza, pur nella costante cifra sperimentale, a partire dalla produzione poetica dell’estate 1935, che reca tracce dell’assestamento seguìto alla decisiva decantazione del lascito banfiano. Già nel gennaio 1933 si esplicita tuttavia la componente di travaglio e di labor strutturale all’atto poetico che si sarebbe più avanti chiarita alla Pozzi grazie soprattutto alla mediazione di Banfi; affiora, nel trauma sacrale e sublimatorio del transito catartico, la spiccata curvatura demiurgica attribuita all’atto poetico, quasi che la prospettiva di completezza che il travaglio sembra preconizzare, superata la soglia del «dolore» e dunque della percezione della vita, proponga un oltre pacificato, una dimensione di completezza non raggiungibile se non attraverso un transito epifanico e apocalittico (se entro la «nostra vita irrimediabile, questo nostro cammino fatale», «l’estasiata gioia del sogno non si sconta forse nel bisogno e nella fatica di gettare quel sogno in parole? e un po’ dell’assolutezza divina non riluce forse nell’atto di quella fatica?»), potenzialmente distruttivo e pur sempre rivelatorio, già parzialmente delineato nel nucleo ideologico de La porta che si chiude, scritta nel 1931. Nel settembre 1933

[(]A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita, per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo, lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vive[),]

benché rispetto al gennaio precedente non sia mutato l’essenziale assetto etico e ideologico, si accentua la componente autosacrificale (già tuttavia in nuce in gennaio come presupposto della funzione sublimatoria e della capacità di intervento operativo, da parte della poesia, sul «dolore» esistenziale, attuando un esistenzialmente arduo parallelismo con la morte) e si esplicita la volontà di accettazione di un «destino» cui la poesia pare imporre statuti propri delegittimando ogni altra istanza, percepita e vissuta come derogante, così che l’esistenza tout court possa convergere al conseguimento di una totalità di vita in cui la poesia proietti la propria necessità vitale sull’esistenza, intridendola di una legittimante identità. Accentuandosi la tensione sacrificale, pur all’interno di una prospettiva ideologica che si sta progressivamente laicizzando, essa viene resa operativa nel quadro di una differente modalità di convivenza esistenziale tra vita e scrittura, poiché, accanto alla componente sublimatoria (che coinvolge senza soluzione di continuità vita e scrittura, riflessione critica ed esistenza), si corrobora una volontà fabbrile che rintraccia nel «lavoro» rielaborativo della creazione artistica, flaubertianamente («l’arte che dell’oggetto che fu vivo e che dovette morire rifà una cosa vivente»), la sublimazione del travaglio stesso, il superamento — rectius la legittimazione — della «pena» e del «travaglio». Emergendo fino a permeare ampi strati esistenziali, dunque, la cifra auto-sacrificale subisce un processo di laicizzazione che la colloca entro un solco di sistemazione banfiana (mediante, certo, la ratificazione flaubertiana), i cui snodi emergono nelle annotazioni diaristiche del 1935 e ancora nella lettera a Dino Formaggio dell’agosto 1937. Il «compito sublime» si fa «sforzo di volontà continuo», dinamicamente dilatato entro lo spazio della vita, la «catarsi del dolore» si dinamizza in «unica possibilità morale», e l’originaria spiritualizzazione del compito della poesia va ad ancorarsi entro categorie spiccatamente operative, pur non derogando, la poesia, rispetto alla radicalità e all’oltranza sacrale che la permeano, anzi rendendo queste ultime motore della sua stessa intransigenza etica. Se nel gennaio 1933 prevale una curvatura sacrale e idealmente liturgica (rilkiana?), nel settembre subentra una sottilmente altra prospettiva di scrittura poetica, per cui alla staticità e alla passività dell’io di fronte alla poesia (il «compito sublime» spetta alla poesia, è la poesia che agisce e opera) si contrappone una «possibilità di vita» che implica, invece, la partecipazione operativa dell’io, affinché la parola diventi «cosa vivente» e attui, attraverso la propria mediazione rielaborativa, una restituzione eticamente strutturata della realtà.

Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, a cura di Matteo Mario Vecchio, con la collaborazione di Chiara Pasetti, Torino, Ananke, 2013

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