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l’Autore Racconta

Mi si chiede, Raccontati, raccontaci.

Proverò a farlo seriamente, ma non contateci. Forse vi dirò che il mio piede calza scarpetta n°34: questo è un problema, perché mi ritrovo spesso le estremità inferiori imbambolate. So che gli scrittori devono parlare composti e pronunciare frasi memorabili. Non sarà, stavolta e credo mai, il mio caso. Quando scrivo, così come quando parlo, qualcosa si apre nel mio cervello, come una sorgente. Mi inonda la testa, e la sputo. Non è mai acqua imprigionata da argini. Ed è sempre tanta. Spesso mi affoga e allora mi viene la tosse, ogni tanto. Spesso ancora parlo da adulta, altre vagisco. Prendetemi dunque così come verrò, diversa da ieri, diversa da domani, diversa già nello stesso secondo impiegato dal pensiero per sbocciare. Vi confido, contando sulla vostra discrezione, che per un anno e mezzo quest’acqua ho provato a placarla con il Litio. Mai acqua fu più furba, lo aggirò e il poveraccio posò la sua resa ai miei piedi.

Faccio la scrittrice per mestiere. Di poesie, teatro, romanzi, insomma, di storie. Di tanto in tanto pulisco anche l’Antro dove vivo assieme a tre cani, sette gatti e una tartaruga d’acqua che per grazia della Natura in inverno va in letargo. Almeno non mangia. Quest’anno non voleva addormentarsi, urlava, Non voglio perdere tempo sognando anguille. È una psicopatica.

Così come per certi idraulici o dentisti o imbianchini dei quali si dice, È bravissimo, o, Fa pena persino pronunciargli il nome, io pure vado avanti, lavorando lavorando. Non sono una con l’Ispirazione alle 4 del mattino o mentre saluta la propria cacca nel wc. Quando decido di raccontare una storia mi siedo al PC e lo faccio. E se sono distante dal PC ho sempre un pezzetto di carta sulla quale appuntare anche solo una parola. Può capitare alle 4 del mattino, come pure seduta sulla porcellana, ovvio. Promemoria, dicesi. Da quella sola parola spesso sa venire fuori un capitolo intero. Qualche volta resta una parola. Ma forse tutto ciò vi sta annoiando. D’altra parte non si domanderebbe mai a un idraulico come accidenti fa ad aggiustare un sifone, o quali sono i suoi sogni. È urgente togliere dalla testa delle persone la visione idilliaca sulla vita degli scrittori. E così che si creano i divi televisivi che poi impediscono ai mestieranti seri di vendere i propri libri. Gli idraulici da Fazio non ci vanno mai, e magari anche loro calzano scarpe n°34 o possiedono una tartaruga grande quanto una tovaglia da picnic, e magari chissà quanti sogni belli coltivano. Ma nessuno vuole fare l’idraulico, tutti vogliono fare gli scrittori (come quelli visti da Fazio, ovviamente). Io ho iniziato a scrivere prima del successo della trasmissione del su citato conduttore, quando faceva le imitazioni, per intenderci, e forse guadagnava meno. E forse era meglio. E forse sarebbe stato più saggio se anche io avessi svolto altro mestiere. Boh!

La sottoscritta guadagna certo meno di un idraulico onesto, molto meno. Quindi se a qualcuno sta ronzando in testa l’insana idea di fare la scrittrice così come faccio io, cambi opinione all’istante. A meno che non ami davvero soltanto raccontare storie mentre mangia pane e olio. Se in fortuna, mortadella. Chiaro? Non c’è altro da aggiungere in proposito, né con concetti alti né scemi.

Detto ciò, torniamo ai piedi. Cenere calda a mezzanotte (ed. Il Maestrale, 2013), il mio ultimo romanzo in libreria, ha inizio con la storia di un piede ferito che procurò la morte per tetano ad una giovane donna, e pure madre di tre ragazzini. Inizia in una notte che dovrebbe durare circa una decina d’ore, invece, leggendo, ci starete almeno quattro giorni, se non consentirete a farfalle di distrarvi. Perché? Perché stavolta l’acqua del mio storto cervellino ha esondato, impiegando oltre quindici anni per raggiungere un mare, e fermarsi. Durante questo periodo l’acqua ha riflettuto, o si è riflessa silenziosa, dando modo ad altre prepotenti figure di esistere. È in anse di fiume che sono emersi Undici, Mia figlia follia, Ogni madre e decine di copioni, racconti, poesie. Sapevo che Cenere calda a mezzanotte possedeva la bontà di attendermi. In questo romanzo è presente il mio intero patrimonio genetico, e spesso non è un piacere scoprirlo, quanto rivelarlo. Come pure non è semplice scardinare il proprio inconscio dalla tana a cui si aggrappa, per ritrovarsi dentro, come spiegare…un buco?

Ogni storia che narro mi svuota perché là dove termina l’immaginazione sono costretta ad attingere alla verità. Non sempre caritatevole. Ciò accade a causa di una scrittura che – perdonatemi l’immodestia – mi permetto di definire onesta. Una scrittura tirata fuori da zolle indurite dalla vita, la mia e quella di chi mi ha preceduta nel sangue simile al rosso che ho in vena. Cenere calda a mezzanotte è spietato nella bontà e nel suo contrario. È spietato nel frugare fino agli intestini le esistenze degli “invisibili” al mondo: uomini e donne di vissuto apparentemente privo di senso. Piccole vite, piccoli piedi, maiali innamorati, vendette, gechi e bellissime donne capaci di lasciare il calco di sé ovunque. Tutto brulica in cent’anni di trasformazioni quanto di immobilità, attraverso il passo di decine di personaggi, creature, semplici quanto il pane, enigmi quanto, cosa potrei dire?, la matematica.

Da un piede infetto e defunto ha inizio il passo di chi potrebbe apparire fermo, ma non lo è mai, se con l’arte del raccontare ha la capacità di condividere il tutto che non è mai niente, se non per gli ammalati di cecità. Il romanzo intero vuole essere dunque un omaggio all’oralità, alla tessitura accurata delle parole. Beh, che faccio? Mi sto spiegando? Devo essere impazzita.

Aggiungo soltanto un particolare: questo lavoro ebbe inizio quando mio padre mi morì tra le braccia. Quel gennaio di una stella cometa nelle nostre notti. Lui capì la morte e la temette, invocò la madre, perduta quando aveva solo quindici anni. Invocò la madre, ma fui io, figlia, l’ultima immagine nei suoi occhi. E allora, per poterlo dimenticare quanto ricordare, divenni scrittrice.

 

S.D.M.

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