Michele Montorfano. Mnemosyne

copertina montorfano

Michele Montorfano ha da poco esordito con Mnemosyne, una silloge non facilmente penetrabile nel suo senso più profondo. Per cui, parafrasando Montale, è utile iniziare l’analisi chiarendo innanzitutto cosa questo libro non è. Certamente Mnemosyne (Lietocolle, 2013) non è un libro storico, sebbene tutta la prima sezione del libro, che è la più corposa, ruoti attorno a un evento storico preciso come l’olocausto nazista. Il titolo stesso della raccolta (memoria in greco), potrebbe trarre in inganno il lettore meno avveduto. E non si tratta nemmeno di un libro di cosiddetta “poesia civile”, cosa che risulterebbe stucchevole e fuori tempo, a 70 anni dagli episodi a cui fa riferimento. L’autore non è mosso da intenti storiografici né tanto meno didattici o pedagogici, ma certamente Montorfano ha qualcosa da dire, e lo fa usando il pretesto della storia e della scienza, lo fa usando lo strumento espressivo dell’allegoria. Mnemosyne è un libro che parla in realtà del bene e del male, e per farlo porta questi concetti al loro apice, utilizzando l’episodio storico che nell’immaginario collettivo comune è simbolo indiscutibile di atrocità, un evento in cui le idee stesse di humanitas e pietas sono completamente saltate. La descrizione degli esperimenti medici ed eugenetici nazisti è condotta con distacco e freddezza, con uno stile a tratti addirittura documentaristico, utilizzando un lessico medico-scientifico. Non a caso domina l’ipermetro, la spersonalizzazione, un andamento sintattico nominativo, la paratassi. Mario Santagostini nella prefazione ha definito anti-letteraria la lingua di questo libro. È vero che l’autore utilizza un lessico che non aderisce alle tradizioni poetiche più codificate, soprattutto nella prima sezione, ma quello stesso lessico viene alzato a livelli di invenzione linguistica davvero notevoli. L’uso che Montorfano fa di certi ossimori, di certi accostamenti di immagini, della metafora, contrasta con il lessico, e produce delle rotture violente e delle lacerazioni visive nell’immaginazione del lettore. Sono possibili almeno due accostamenti con la poesia italiana più recente: Macello di Ivano Ferrari e Guerra di Franco Buffoni. Abbiamo in Mnemosyne la stessa analisi del crudele, del macabro, lo stesso orrore per la materia corrotta che c’è in questi libri. Tuttavia Ferrari vuole esibire la morte, descrivere le leggi violente della sopraffazione, lo stile di Buffoni è più narrativo, Guerra è un libro più corposo e dai molteplici registri, attraverso i quali l’io interviene con slanci morali. L’intento di Montorfano non è soltanto descrittivo, ma nemmeno moralistico nel senso comune del termine. Con questa raccolta compatta l’autore vuole dirci che siamo tutti coinvolti, che la linea di demarcazione tra il bene e il male non esiste, che non ci sono i buoni e i cattivi. E questo spiega il tono di freddezza e distacco: se l’assenza di giudizio deve essere veicolata al lettore, deve per prima cosa essere praticata con la parola. Ecco come la pedagogia di Montorfano è l’assenza di pedagogia: si potrà invece parlare di a-morale o di morale negativa, di pedagogia negativa. La prima sezione del libro è una ripetizione ossessiva e fredda del dolore e dell’orrore dei lager. Montorfano non si limita a rappresentare lucidamente il male, ma inserisce nella rappresentazione anche il soggetto, o, meglio, i soggetti. E lo fa confondendoli: le vittime e i carnefici si mescolano continuamente, – non a caso domina la terza persona – fino a quando l’io lirico interviene in alcuni misurati passaggi: “Io scrivo i nomi degli orchi accanto a quelli dei santi”. Questi versi ricordano i versi di un poeta diversissimo da Montorfano, la cui vicenda è a dir poco singolare nel panorama poetico italiano del Novecento, ed è Giorgio Caproni. In Res Amissa, Caproni si interrogava sul concetto di ambiguità, e si chiedeva: “Se non sono ladrone / o omicida, forse / è soltanto perché / non ne ho avuto occasione?”. Giorgio Caproni non ha avuto epigoni. Montorfano ha dei riferimenti e maestri letterari forti (i greci e i francesi, soprattutto), ma appare evidente come Montorfano non sia epigono di nessuno. Mentre gran parte della poesia che si scrive in Italia negli ultimi anni si muove in spazi ristrettissimi, ruota attorno al concetto di vuoto, materiale, morale, spesso biografico, o quanto meno esistenziale, raggiungendo in alcuni casi delle vette notevoli, la poesia di Michele Montorfano è invece animata da un’ansia e da una tensione comunicativa fortissima, che lo porta invece a rischiare e a volare alto. Una tensione comunicativa che si nutre anche di strappi visionari, al limite orfici, a mediare la lettura, ma che pervade la raccolta tutta. Nell’ultima sezione, intitolata Distruzione e salita di Lilith, la volontà di dire dell’autore tocca il suo apice. Questa volta Montorfano non utilizza riferimenti storici ma una figura mitico-religiosa. Nelle antiche religioni mesopotamiche e ebraiche Lilith è una figura femminile demoniaca, caratterizzata dagli stereotipi diabolici della femminilità: adulterio, stregoneria, lussuria, malattia. Il riferimento – che è già nel titolo – alla distruzione e alla salita di Lilith svela ancora una volta il piano di scivolosa ambiguità che l’autore intende attraversare con il lettore. Qui l’io lirico interviene attraverso il personaggio tragico nella narrazione (non a caso si utilizza il termine narrazione, perché qui il verso si allunga fino a divenire prosa), un personaggio che è voce e simbolo di perdita, impotenza, solitudine. Ma Michele Montorfano sembra dire che solo attraversando il buio e cadendoci dentro possiamo trovare la luce e la parola: “Questo è lo scheletro troncato. / Questa è la mia lingua che entra in te, che ti svilisce fino all’indole. / Costruisci un verso come il resto di un incendio.” 

 

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