“Ceneri germogli ceneri”, Eugenio De Signoribus non distoglie lo sguardo dalla scena turbinosa del mondo denunciandone i mali profondi. 

Nell’era «dell’imperdono/ che si dispiega bassa/ nell’uno e nella massa», è, per dirla con le parole del filosofo Giorgio Agamben, il più grande poeta civile della sua generazione. «L’amore per la lingua è il più fedele», come fedele è il verso inesausto e composto che narra, con lucidità millimetrica, dell’esistenza, il «sangue comune». L’autore, «nell’acerba radice», spingendosi idealmente «oltre l’armato confine», non distoglie lo sguardo dalla scena turbinosa del mondo denunciandone i mali profondi, «l’ammasso degli innocenti», la «ressa del sangue, ognidove…», la violenza che «mette micce anche alla roccia». Parliamo di Eugenio De Signoribus e del nuovo volume, “Ceneri germogli ceneri”, pubblicato nella collezione “Lo Specchio” Mondadori, che raccoglie poesie dal 1976 al 2024. “Non siamo davanti a una antologia tradizionale, ma a un ripensamento radicale teso a configurare un nuovo percorso di testimonianza e poesia: testi derivati dai volumi sopra citati, e sottoposti a una vasta revisione, spesso una vera riscrittura, sono messi in connessione a testi del tutto inediti, in modo da creare nuove sequenze all’interno di una architettura, sempre mutuata, come già in precedenza da una numerologia, che vede serie di 7 poesie (simbolo di completezza, come la costruzione del mondo) in 14 stazioni, ancora una volta nella figuralità della via crucis. Alla rigida struttura però segue come sintesi, fuori numero, “Summa minima”, che in ogni caso si snoda in 14 testi; portali di apertura, la dedica, e di chiusura, il congedo e la voce fuori campo, completano l’insieme”, introduce Stefano Verdino. “La presente scelta – precisa De Signoribus -, è avvenuta in un breve tempo, complicato e infelice. Mi corrisponde. Non è cronologica, piuttosto è emotiva, sentimentale. Esclude le sequenze poematiche. Degli oltre cento testi, almeno dodici sono inediti assoluti o inediti in volume”.

«L’amore per la lingua contiene gli altri amori,/ dal loro annuncio alla loro consumazione./ Va oltre. Salva. (Forse salva!)», con i suoi versi per chiedere: le parole bastano alla poesia?

«La poesia è impastata con le parole ed esse bastano: possono contenere echi del mondo e della vita interiore, più o meno intensi, più o meno ricchi di riferimenti a fatti dolorosi o estremi. Oltre non può andare».

Ad oggi, dove è stato condotto dalla poesia?

«La poesia è stata gran parte della mia vita vera. Ho pensato sinceramente, utopisticamente, che servisse a cambiare qualcosa, in meglio. Non è accaduto, non accade. La delusione è stata cocente. Alla fine, a forza di caricare l’autocoscienza, il senso di colpa, mi sono condotto nei pressi del baratro: che è il baratro dell’umanità».

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

«La poesia può sperare di spingersi oltre finché si trovano le parole per testimoniarlo. Poi, come accennato, si può solo sognare o, più verosimilmente, vivere di incubi».

Cosa può la poesia nell’«era dell’imperdono»?

«La poesia, nell’era dell’imperdono, deve essere coerente: non deve perdonare il male assoluto creato da criminali: disumani contro umani inermi. Cioè non deve mai dimenticare».

Cosa può contro le ripetizioni della «sordida historia»?

«Nulla. Se non ripetere ogni volta, fidando nelle proprie variazioni e nelle sfumature dei fatti, la malattia mortale di certa storia: un virus sempre contemporaneo».

“arde l’anello mortale/ rapidamente sfuma ogni calca vociante/ ogni cosa inerte (…)”, ancora i suoi versi per chiedere: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’inascoltato?

«Teoricamente, la poesia dice l’inascoltato, è nel suo essere. Davanti “alla calca vociante”, vorrebbe pensarsi risolutiva, trasfigurandosi in atti: ma è solo un velo di pena o un minimo spostamento d’aria: che nessuno vede e nessuno ascolta».

Per concludere, sceglierebbe una sua poesia per salutare i nostri lettori?

Congedo

Camminavo lungo una linea indistinta
al tramonto di un comune giorno.
Camminavo da tempo, al tramonto
D’ogni comune giorno. E vedevo
il sentiero solo per il solco tra l’erba
pestata tanto da far trapelare sassi
lucidi come punti di luce.
Ero uscito dal mio punto oscuro,
per disperazione, così dal villaggio oscuro,
così dall’oscuro villaggio planetario.
Ovunque l’aria era grave di pena.
Mi trovavo lungo un sentiero ignoto
in cui tutto sembrava andasse a ritroso.
Mortificata l’immaginazione, ero
al lento declino della mia vita:
mentre il folle mondo perseverava
nei suoi mali
dissolvendosi inesorabilmente.

(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del, pagina 10.08.2025 Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

Potrebbero interessarti