di Stefano Raimondi
Non basta un deserto per essere soli, serve una solitudine per avere un deserto. Ed è proprio in questa seconda accezione, che la nuova raccolta di Maria Borio, intitolata “Dal deserto rosso” (Stampa2009, 2021), costituisce il particolare percorso di questo ritrovamento.
È un’indagine poematica di grande affondo che, l’autrice compie ponendosi in un ascolto continuo, quasi veggente, dove il tempo non ha più né un inizio, né una fine precisa, ma si risolve in un fluttuare che la conduce all’interno di una esplorazione di forte intensità espressiva. Qui il mondo si fa totalmente natura, toglie le coordinate di una spaziatura riconoscibile; si immette all’interno di una traiettoria che non ha né uno spazio, né un tempo preciso.
Siamo in un luogo di luoghi, dove le situazioni accadono, sovrapponendosi, mischiandosi, lasciando poco spazio ad una conflittualità di cause e di effetti. Qui succede qualcosa. Qui accade un “inizio” che porta in una continua trascrizione empatica delle occasioni del mondo colte nell’irrefutabilità del quotidiano.
Maria Borio nel suo linguaggio preciso e puntuale, conduce il lettore all’interno di una mappatura, non di un io, ma di un sé colto in una profondità continuamente posta in stato d’interrogazione: chiamata in appello.
È questo un libro esperienziale, rituale, dove l’ascolto e la conoscenza di sé al mondo, sono intelaiati in un livello molto alto di percezione. È la vertigine; è la confusione e l’immedesimazione in un onirico sentimento del tempo, che qui si evidenzia tra le parole.
Parole che sono tratte da una delicatezza di intenti e da una scrittorea sensibilità. Frasi che sono elaborate da una gentilezza di suggestione che non è mai inerte. Versi che si inanellano mediante una sapienzialità che diventa musica, cantilena ipnotica e ipnotizzante.
Anche il distopico canto finale intitolato “Millennio di primavera” sembra rubato ad un’immersione fonda nella percezione di un dintorno che si attualizza più per visioni che per vedute. È una perlustrazione singolare di chi sa come entrare nel mistero interpretativo del reale percepito e non per questo sempre realistico dell’esperienza del mondo.
La mappatura concreta del “vedere”, qui si fa ricerca di senso e riflessione.
Non so dove si potrà arrivare in questo brano di vita posta nella velocità di un’ipotesi, ma ciò che resta è, sicuramente, un viaggio all’interno di una epifania che pone il corpo ascoltante dentro ad un inesorabile e continuo progredire di realtà.
Il quotidiano, la memoria, la situazione amorosa, ma anche la paura, il distanziamento, la faccia fantasmatica di un’epoca, diventano le sotto tracce di una evidenziazione del presente.
Non è il tempo qui a evidenziare il suo contesto, ma è l’atteggiamento, la postura della percipiente a diventare la sinopia terribile di una contemporaneità che ci ha condotti a ripensare alla natura in un altro modo, come a qualcosa che ci è rimasto come avanzo invece che dono, a ripensarci nel mondo.
Questa raccolta diventa così una elaborazione lirica di un tempo concreto che qui viene celato da una lievità che non è un tratto estetico, né tantomeno estetizzante dell’intendere il mondo, ma diventa una scelta esatta per affrontarlo. Qui l’autrice vede; qui la poetessa sente; qui la persona cerca ciò che in realtà le è stato consegnato all’inizio: quell’umano tentativo di provare misericordia verso la verità. La stessa che si denota esserci stata improvvisamente rubata, tolta da un principio di realtà che stiamo subendo, che stiamo cercando di capire fino all’ultimo respiro.