Scrivere poesie è creare una festa deserta.
“Poetry” di L. Chang Dong
La “finezza” che Davide Rondoni evoca nell’intenso risvolto di copertina per “Dalle fondamenta”, l’ultima raccolta di Paolo Lisi – edita per “Le Farfalle” dell’infaticabile Angelo Scandurra – assume quasi immediatamente una connotazione acuminata, tagliente. E questo incidere è soprattutto riflessivo: Lisi volge cioè la pratica poetico-filosofica verso sé investendo le proprie tensioni, le forze distruttrici interne ed esterne con cinica determinazione.
La scrittura dunque diventa un autodafé penitenziale (e il titolo della precedente raccolta – “E la colpa rimane” – testimonia il legame intimo, viscerale con il dire ed il farsi della sua poesia) e allo stesso tempo di redenzione.
Sembrerebbe insomma l’attività poetica una pratica quasi autolesionistica che già nella prima sezione, “Frammenti di fuoco”, recupera alcuni riferimenti, anche lessicali: “mi lanci”; “punta”; “solchi profondi della carne”. Un agire comunque fiammeggiante, che se pure suggellato dall’inquietante “silenzio” dell’ultima lirica, si dipana, nella successiva “Orfeo nell’isola di Euridice”, in una sorta di personale mitologia, lungo la quale balena, tra sogni consumati, corteggiamento di morte e piano-sequenza carnali, la scrittura come unica e ineludibile necessità: non è infatti solo “nelle mani/ la forza/ di ricominciare” (dunque l’atto stesso del comporre) ma in quel legame concreto, fisico, tra sostanza e parola, tra azione dei e sui corpi e loro riverbero sul foglio bianco – “i polpastrelli/ illuminano la pagina”- che trasforma il “seme” ormai cristallizzato del poeta in scrittura viva.
È uno dei temi fondamentali che attraversano il libro, sconfinando da ogni sezione. In questo versificare, il dire se da un lato è atto ermeneutico e critico (“l’arido vero/ appena sfiorato/ si affolla di parole”), dall’altro si fa aspettativa: “Pagina che attendi/ come una madre che sa/ che il verso è nell’attesa/ nello sciogliersi di un attrito.” Ed è perciò con la finezza acuminata della scrittura che Lisi incide sulle delusioni esistenziali, sugli amori naufragati, sugli “anni randagi/ dal sapore/ di cannella e fumo”. Si tratta insomma di aggredire l’esistenza con una poesia intransigente, netta – affilatissima appunto – grazie alla quale recidere tutti gli inganni e le mistificazioni e che incombe, anche, coi lacerti di un presente non meno tormentato, non meno straziante: “L’uomo senza tempo/ sul letto d’ospedale/ mi fissa muto.”
Sul buio di un tempo quasi circolare nella sua perenne menzogna – poiché “l’avvenire/ è screzio d’anni/ un conflitto di date irrisolte” – improvviso il lampo di un rogo memoriale lontano, improvviso e fatuo, un bagliore accecante d’infanzia – “L’albero di gelsi/ brucia ancora//ultimo scampolo/ d’adolescenza” – a sottolineare come i “frammenti di fuoco” della prima sezione disseminino le loro faville lungo tutta la silloge insieme alla disciplina, al duro noviziato dell’autoanalisi. La poesia referta così il proprio “stato di coscienza”: “Nel culo/ le promesse e le esortazioni/ se per linguaggio si sposa il verso/ l’appendice di un vizio.” La parola pare dispiegarsi allora come rovente chiarore, falsamente quieto, riverbero scuro d’inchiostro sul niente “in cui ci misuriamo”. È un procedimento non solo tematico ma anzitutto architettonico, di costruzione del verso – scarno, austero, rastremato – della sua sintassi e di un lessico che “taglia rasente agli angoli”, che “scardina dal proprio asse” anche gli spazi consueti sulla pagina.
L’apice di questa disamina interiore converge nell’unica prosa del libro, strategicamente posta nella sezione omonima del titolo, una variatio stilistica che circoscrive – quasi come i bastioni di un fortilizio – l’intera materia poetica e la indirizza verso l’autocoscienza infelice del poeta: “Solo perché scrivo versi non vuol dire che sia immune dall’inganno”. “Dalle fondamenta” svela anche una funzione (e una finzione) contemporaneamente di sostegno e di baluardo contro la dissipatio dei giorni ma non è mai ammiccante né consolatoria. Paolo Lisi nel suo procedere per epurazioni, per piccoli ma definitivi regolamenti di conti, riesce così a giungere alla tappa ulteriore – una specie di sublimazione – all’Amore, alla sua straziante invocazione, alle fondamenta stesse dunque: “un passo più in là/ vicinissimo e distante”, nell’azzardo del salto che è consentito solo alla vertigine della poesia.