Mi considero uno scrittore a progetto, nel senso che la mia scrittura si condensa intorno a un’idea malleabile che io poi articolo e organizzo in una compagine. L’idea che sta alla base del progetto varia di volta in volta (di titolo in titolo) e prevede un’organizzazione formale che possa traghetttare il lavoro dal silenzio alla forma definitiva. Non mi sono mai accontentato di una sola forma, anzi, ho sempre cercato di provocarne molte: il risultato sono libri (compagini) fra loro molto diverse che hanno come punto in comune una certa irrequietezza verso l’istituzione detta poesia popolarmente intesa nonché una dialettica costante con una o più tradizioni (non sempre letterarie).
Per questo autocommento (una sorta di autopsia praticata su se stessi) ho scelto quattro poesie tolte da tre libri da me composti e pubblicati negli ultimi vent’anni (tanto è il tempo della mia pratica di scrittura in versi, comprendente anche alcuni anni di “apprendistato”).
Il primo testo è tolto dal libro Palinsesti – Canzoniere catodico, uscito da Zona nel 2007: il libro aveva come caratteristica portante il riutilizzo di un immaginario sporco, vale a dire quello televisivo dell’epoca, con tutto il suo corollario di vecchie glorie in disarmo, ossessioni pubblicitarie e cascami consumistici. Voleva essere anche una critica non molto velata alla spettacolarizzazione di un capitalismo destrorso che all’epoca, in Italia, si era fatto potere politico.

 

DA CONSUMARSI PREFERIBILMENTE
PRIMA DELLA DATA DI PARTENZA

 

Dal bollire laborioso della cassa
funebre bruciàcchio – infernale crosta:
quagliotto en sarcophage,

quattro salti in barella:
scongelami col caldo del tuo fiato,
il me andato a male (stecchito sotto sale).

Mangiucchiami, sgranocchiami:
divorami i canditi dalle dita,
i lemmi in salsa rosa:

erosa la carcassa, fanne glassa,
un velo zuccherino, polveroso
sulla massa di me, un pasticcino.

Oppure scassa la dura scatoletta
ché fragile si spezza con grissino
la polpa granchia che la morte affetta.

(Marco Simonelli, Palinsesti, Zona, Arezzo 2007)

 

Qui il soggetto salta su una giostra culinaria e slitta di posizione in posizione seguendo una libera associazione di immagini, idee e citazioni: si passa dal “quagliotto” de Il pranzo di Babette a una rivisitazione dark del noto spot del tonno (quello “così tenero che si taglia con un grissino”). Il testo vorrebbe assolvere ad almeno due funzioni all’interno del progetto: esso infatti intende sia introdurre nella compagine l’io narrante (una versione postrema dell’io del confessional americano che tanta parte ha avuto nella mia formazione), sia invitare il lettore ad apprezzare tale scrittura in tempi brevi, di farlo insomma finché l’autore è ancora vivo, possibilmente evitando un riconoscimento esclusivamente postumo: questo vuole più o meno essere il significato del titolo che, parodiando la scritta “da consumarsi preferibilmente prima della data di scadenza”, invita a considerare poeta e poesia come fragili e non durature entità più o meno letterarie. Si tratta di un punto filosofico espresso anche altrove, in altri luoghi testuali: credo infatti che la mia scrittura si rivolga più a una contemporaneità che a una posterità, tendendo poi ad escludere quell’eternità che invece tanta parte ebbe nella scrittura di una Emily Dickinson.

Il testo successivo è tratto da Will-24 sonetti, una plaquette uscita per d’If di Napoli nel 2009. Alla base di questo lavoro c’è la rilettura e il successivo, profondo innamoramento dei sonetti di Shakespeare. Will ovviamente è il desiderio ma è anche il nomignolo che il bardo dava al suo fair friend. In me risuonarono le corde di un amore omosessuale vissuto a 500 anni di distanza. Decisi quindi di ritentare il sonetto elisabettiano sostituendo al pentametro giambico l’endecasillabo. In quel determinato periodo storico che stavamo vivendo si cominciava seppur timidamente a parlare di unione riconosciuta legalmente fra persone dello stesso sesso (qualcuno forse si ricorderà dei “dico”) e quindi decisi di scrivere un sonetto d’amore che potesse sintetizzare un’idea di legame affettivo riconosciuto.

 

Il Vaticano dice di non farlo.
Vuol dir che non avremo cerimonia.
Ma quello Stato che moneta conia
Il nostro patto, amor, non può disfarlo.
Ci unimmo un pomeriggio nel salotto,
sfiorandoci le mani, per merenda.
“Di tue ferite io sarò la benda”
promettemmo mangiandoci un biscotto.
In fondo non vogliamo un matrimonio.
Ci basta un bacio da scambiarci al sole,
un avvenir di giorni come prole.
È questa la ricchezza, il patrimonio.
    (Chi ci dice che quelli con le ali
     non siano anche loro omosessuali?)

(Marco Simonelli, Will-24 sonetti, d’If, Napoli, 2009)

 

Si tratta a tutti gli effetti del primo sonetto elisabettiano che abbia mai scritto, databile all’aprile del 2006. Si nota forse una certa imperizia stilistica, tuttavia il testo aveva una valenza politica forte e per questo lo scelsi per concludere il libro. Se nel primo verso nomino il Vaticano, nell’ultimo faccio un riferimento al sesso degli angeli (questione teologica sempre in auge da secoli) immaginando un loro orientamento sessuale simile al mio. Non vorrei entrare nella disamina del sentimentalismo né specificare se il testo si ispiri a un accidente biografico o meno. Dirò solo che qualche anno dopo fui raggiunto da un video in cui un ragazzo che non conoscevo declamava questo sonetto attraverso un megafono durante un sit-in di protesta in favore della legge Cirinnà. Fu una grande soddisfazione constatare che la poesia poteva davvero servire il/al mio tempo.

Nel 2017 il critico Yannick Gouchan ha dedicato un lungo saggio alla mia poesia (cfr. qui). Un passaggio della sua disamina mi colpì non poco: “Il cibo e la sua preparazione, il modo di alimentarsi, la cucina, il commercio di cibi e la loro esibizione denunciano nella poesia di Simonelli una vera ossessione”. Mi fece l’effetto di una bilancia che sentenzia un peso drammaticamente maggiore del previsto. È vero: i miei disturbi alimentari hanno valicato la pagina e si sono costituiti metafora portante, senza che in realtà ne avessi molta coscienza.
Nel mio ultimo libro pubblicato, Le buone maniere, del 2018 c’è un testo che nasce in risposta a questa intuizione critica. Il libro si costruisce intorno ad una sorta di galateo contemporaneo che indaga la portata delle relazioni (spesso tutt’altro che cortesi) degli esseri umani durante questo primo scorcio di millennio. All’interno di questo progetto c’è un testo che io definirei una “riduzione” di poetica in quanto fa tesoro dell’intuizione di Yannick per parlare apertamente di alcuni fondamentali della mia poetica.

 

In cucina

Vi sia prima di tutto precisione:
rispetta dosi, tempi ed ingredienti
attieniti alle regole e controlla
di tanto in tanto il grado di cottura.
Questo cibo non è solo per te.

Tu fa’ che sia leggero e digeribile.
Risparmia ai commensali e ai loro stomaci
quel sopore che genera nel corpo
la pietanza fin troppo elaborata.
Disponilo sul piatto di portata.

Se segui i miei consigli, torneranno.

(Marco Simonelli, Le buone maniere, Valigie Rosse, Pisa, 2018)

 

Da questo piccolo testo si può evincere quanto segue:

– La poesia ha un’estensione limitata e per questo le parole vanno scelte con estrema cautela.
– Non credo in una poesia anarchica, anche il non avere regole è una regola che va rispettata (e che comporta alcune scelte tanto radicali quanto responsabili). Ogni testo ha un suo perché metrico e stilistico, una forma che si lega di volta in volta ai contenuti o alla loro assenza.
– Non credo nella poesia che rimane nei cassetti: importante è la condivisione (ognuno scelga i canali che reputa consoni).
-Credo nell’essenzialità. Credo che la poesia sia una sintesi di idee e che ciò sia la caratteristica che rende un testo necessario.
-Credo che la poesia possa anche essere finalizzata alla costruzione di una comunità, possa essere abbinata ad un progetto politico, non necessariamente a una fidelizzazione di lettori, ma all’avvicinamento delle persone fra loro.
-Non parlo di “cibo per l’anima”, al contrario il secondo referente della metafora è proprio il corpo, la sostanza umana pragmatica, nel suo mutare, nel suo avvicinarsi ad altri corpi.

L’ultimo testo di cui vorrei parlare viene ancora da Le buone maniere:

 

A tavola

“E fra voi due chi è che fa la donna?”

Ce lo chiede verso il dolce
dopo un primo con le arselle
e un secondo a base di branzino.

Per lui è naturale chiederlo.
A tavola, si sa
la confidenza aumenta.

Pare scortese glissare e non rispondere
e certo non è il caso di discutere,
tentare di spiegargli che due uomini

dispongono di modi più creativi
per divertirsi a letto.
Così gli raccontiamo

questo nostro segreto inconfessabile,
arcana metamorfosi notturna
sempre pronta a mutarci in qualcos’altro:

di come il seno cresca e il pene cada,
della voce che s’alza d’un’ottava,
di come bestiali ci accoppiamo

– animali feroci come gli uomini –
per poi tornare a correre ululando
alla mannara faccia della luna.

(Marco Simonelli, Le buone maniere, Valigie Rosse, Pisa, 2018)

Credo fermamente che una poesia possa nascere dalla vita di tutti i giorni, se non proprio da esperienze vissute, almeno dall’osservazione dei meccanismi profondi delle cose. Questo testo nasce da un esprit d’escalier, vale a dire da una risposta elaborata quando ormai era troppo tardi per esporla. Ho covato per molto tempo l’idea di una risposta alla domanda formulata nel primo verso, domanda che nasce da un misto di ignoranza e invadenza. Ma si tratta anche di una domanda che è involontariamente comica e quindi non è possibile rispondere seriamente: serve anzi un’iperbole che illustri al curioso l’idiozia di un tale quesito. Penso che questo testo abbia, nella sua semplicità e ironia, una valenza politica, che possa insomma assolvere almeno due compiti: illustrare un comportamento di stampo omofobo fornendo una possibile replica e creare nei lettori un senso di appartenenza, di comunità. Questo (o perlomeno qualcosa di simile) è ciò che ho cercato e cerco di fare.

 

nota bio-bibliografica

Marco Simonelli è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Fra i suoi ultimi lavori in poesia Firenze Mare (in Poesia Contemporanea. Undicesimo Quaderno Italiano, Marcos y Marcos, 2012), l’antologia Poesie d’amore splatter (Sartoria Utopia, 2015), Il pianto dell’aragosta (d’If, 2015) e Le buone maniere (Valigie Rosse, 2018).

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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